“IL PEGGIO DEL FASCISMO E’ MEGLIO DEL MEGLIO DELL’ANTIFASCISMO”

(Roberto Mieville, 12 marzo 1949, discorso alla prima Assemblea del RGSL)

sabato

Il campo di concentramento di Coltano, allestito al termine del secondo conflitto mondiale dagli Alleati nella omonima frazione del comune di Pisa, fu utilizzato, tra luglio e settembre del 1945, come centro di detenzione per prigionieri di guerra fascisti della ex Repubblica Sociale Italiana, militari germanici e collaborazionisti dell'esercito tedesco di altre nazionalità. Il primo campo per prigionieri di guerra organizzato dagli Alleati in Toscana fu il campo di Scandicci. In seguito fu creato un nuovo campo nella tenuta di Coltano composto in realtà da tre campi. Il PWE 336 (418mila metri quadrati) era destinato ai prigionieri di guerra tedeschi, il PWE 337 (382mila metri quadrati) ai soli italiani e il PWE 338 (423mila metri quadrati) ai tedeschi e ai collaborazionisti stranieri, principalmente sovietici.
Il PWE 337
Alla 92a Divisione «Buffalo» della V armata USA fu affidata, tra il maggio e il settembre 1945, la gestione del campo in cui furono rinchiusi circa 32.000 ex militari della RSI. Tra i reclusi: gli attori Walter Chiari, Dario Fo, Enrico Maria Salerno e Raimondo Vianello, l'olimpionico Giuseppe Dordoni, i giornalisti Enrico Ameri e Mauro De Mauro, l'orientalista Pio Filippani Ronconi, Ezio Maria Gray, Vincenzo Costa, Vito Mussolini, il deputato Mirko Tremaglia e il senatore Giuseppe Turini. Fra questi anche Giovanni Prodi, fratello maggiore dell'ex Presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi, i generali D'Alba, Farina, Agosti, Frigerio, Bonomi, Adami Rossi, Gambara, Carloni e Canevari. Della prigionia di Ezra Pound a Coltano, rinchiuso per 15 giorni in una gabbia di filo spinato senza protezione dal sole o dalla pioggia e privo di servizi, illuminato da potenti riflettori di notte, riferisce il maggiore Edoardo Sala. In un secondo tempo, Pound fu trasferito nel campo di punizione PWE 335 e, nel successivo novembre, negli Stati Uniti. 


ROBERTO MIEVILLE NASCE A FERRARA IL 14 DICEMBRE 1919.  UFFICIALE DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE. REDUCE DAL CAMPO DI PRIGIONIA MILITARE DI HEREFORD NEL TEXAS.NEL GENNAIO DEL 1946 FU FRA I FONDATORI DEI FAR (FASCI DI AZIONE RIVOLUZIONARIA). GIORNALISTA, FU L'ANIMA RIVOLUZIONARIA E SOCIALISTA DEL MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO, DI CUI FU UNO DEI FONDATORI, GUIDO' IL FRONTE GIOVANILE, ESSENDO STATO NOMINATO ALL'UNANIMITA' SEGRETARIO NAZIONALE DEL RAGGRUPPAMENTO GIOVANILE STUDENTI E LAVORATORI. ALLE ELEZIONI POLITICHE DEL 1948 FU UNO DEI SEI DEPUTATI ELETTI ALLA CAMERA NEL MSI. FEDELE AI PRINCIPI MUSSOLINIANI, SI BATTE' ALL'INTERNO DEL MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO CONTRO OGNI DERIVA CONSERVATRICE E REAZIONARIA, PER LA CONTINUITA' IDEALE CON LA NATURA ANTICAPILISTICA, ANTIMONARCHICA E ANTIATLANTISTICA DEL FASCIMO REPUBBLICANO ESPRESSA NEL MANIFESTO DI VERONA DEL 1943. NEL 1953 FU RIELETTO ALLA CAMERA NELLA II LEGISLATURA. MUORE IN UN INCIDENTE STRADALE L' 11 APRILE 1955 A LATINA.

PAROLE CHIARE, TANTO PER INTENDERCI SUBITO
Questo è un racconto dedicato ai fratelli dì tutte le prigionie, onoratamente sopportate e in particolare agli Ufficiali, Sottufficiali e Soldati del Prisoner of War Camp di Hereford, Texas USA.' Chi ha scritto questo racconto, ricorda i camerati assassinati dal detentore nei Campi d'Africa e d'America nella lunga prigionia e rivolge alle mamme l'abbraccio affettuoso di tutti i camerati che li hanno conosciuti e li onorano. La posizione assunta in prigionia di guerra di fronte agli avvenimenti dell'8 settembre e del Regno del Sud è stata netta e precisa e dichiaratamente per la Repubblica Sociale Italiana. I fratelli reduci dai terribili Campi di Russia, India, Kenia, Rodesia, Algeria, Sahara e Marocco, scrivano la loro storia affinché. rimanga documentato che la brutalità e la bestialità non era patrimonio esclusivo dei detentori tedeschi. Forse, anzi sicuramente, qualcuno, ravviserà in questo racconto gli estremi per una accusa di “ fascismo” o di “ apologia del fascismo ”, ma gli atti e gli intendimenti sono stati quali e tali come sono raccontati, ed è evidente che nessun rimpianto, c'è per quello che è stato detto fatto e pensato che se del caso verrebbe nuovamente e con lo stesso spirito detto fatto e pensato.
Vada questo racconto e dica a tutti: Onore e Viva l'Italia!
ROBERTO MIEVILLE
Roma, 1947

Da qualche ora il cannoneggiare si è smorzato. Perdura lontano il crepitio delle mitragliatrici. E' appena il crepuscolo ma, nella gola è già Completamente buio Si vede il picco di Djeradojou incendiato da una lama di sole che si infila diritta dalle montagne del Gebel Zoghoun. Aerei incrociano senza sosta il cielo, indisturbati. 
Una colonna di autoambulanze percorre il tratto bianco della pista di Bou-Ficha. Nei capisaldi e nelle buche c'è silenzio. Qualcuno ha contato le munizioni rimaste. Sono le ultime, ormai. Poco fa è passato per la linea l'addio della Patria alla Prima Armata che cade sul posto. E' l'undici maggio e ancora Alta è la bandiera. Stando così fermi, con gli, occhi fissi nel buio e con un braccio appoggiato sull'arma, gli uomini corrono con il pensiero alla casa lontana e alle piste sperdute e ai capelli biondi agli occhi grigi della ragazza. Qualcuno si vede passare negli occhi, in rapida successione, tutta la sua guerra africana e un groppo gli sale alla gola. Lo stendardo reggimentale sventolava vittorioso a Tobruk sul Pilastrino espugnato, un anno prima! Una raffica vicina spezza il silenzio. Una granata esplode. E la volta del cielo divenuta scura è corsa da razzi multicolori. Altre mitragliatrici rispondono e in breve tutto il fronte è di nuovo in fiamme. Per il sentiero vien su un plotone di rincalzo. Sono altri bersaglieri. Una voce nel buio, chiede : - 8° o 9° Una voce risponde : - 8°. Poi: - Vecchia Ariete?. - Vecchia Ariete! V battaglione!. - Anch'io! XII battaglione... Halfaya... -ricordi?. - Halfaya? Se ricordo?... Ero con Cova, io... - Cova... - è sepolto laggiù... a Capuzzo. Qualche ottimo di silenzio, poi un sospiro: - E ora, finiti! Una pattuglia esce dal ' caposaldo e scivola nella. notte –verso il nemico. Il plotone di rincalzo sì è sistemato alla bene e meglio. Dice un ufficiale.- Quaranta cartucce! Mirate bene...E un bersagliere: Quaranta cartucce? Ne ho, avute di meno, due anni fa, a Sidi Rezegh... L'ufficiale: - Meno di quaranta?. -- Sicuro. Meno di quaranta. Quasi trenta ne ho avute ... E mezza galletta... e neanche un sorso d'acqua per tre, giorni ... Neanche il famoso litro di Neghelli, tenente... Ma ce l'abbiamo fatta, tenente... Dicono che qui è finita... Si vedrà. Conosco bene Montgomery, io. Un'altro bersagliere: - Finita? Per l'8° non è mai finita! Il tenente vien chiamato al comando del caposaldo La Pattuglia si deve essere scontrata con elementi nemici perchè le raffiche sono divenute più intense. Quando, ritorna, il tenente dice che devono stare pronti a uscire per un assalto. - Oh!... mamma!... La voce dell'ufficiale disteso sulla terra nuda e malamente ricoperto con un telo lacero, si perde in un sussurro indistinto. La benda che gli fascia il capo è divenuta nuovamente rossa di un sangue che si spande Poco a poco e che la pensare allo sbocciare di una rosa. Un bersagliere tiene nelle sue 1a mano, del tenente e gli dice di star tranquillo. " Forse cambia, tenente! L'azione è andata bene Non è grave la ferita... Non: dovete pensare agli uomini...”. Il cielo sopra di loro è ancora buio ma già verso oriente comincia a schiarirsi. Non romba più, il cannone. E anche le mitragliatrici tacciono Nelle buche gli uomini hanno cominciato a distruggere le armi: non ci sono più munizioni. Corre voce che il Generale stia trattando la resa con "Monthy”. ”Monthy” lo chiamano così anche i soldati italiani. Tante battaglie contro di lui e la sua armata. La "guerra dei gentiluomini" sta per finire. Ha proprio detto così " Monthy " alla radio. Più giù degli uomini hanno allineato una decina di nuove croci. Sono i bersaglieri caduti nella notte. Per il tenente non ci sono più speranze. Diranno di lui, i bersaglieri: - E' caduto bene... da bersagliere... l'ultima notte. Sui margini di un sentiero il Comandante del caposaldo parla, con un soldato. Dice: - Conserva tu quelle carte... Le darai a sua madre... Le racconterai tutto... Dirai che abbiamo messo la croce... Ma forse non dirai niente… Non ci arrenderemo Nessuno dira niente... Forse domani avremo ricomposto in cielo il nostro bel battaglione... Il soldato getta la sigaretta e siede accanto al suo, capitano che non Parla più ma che tiene lo sguardo fisso a Nord. Dice il soldato: - Là ci aspettano... Ma forse è meglio se resteremo qui, capitano... Potremo rimpiangere di essere tornati, un giorno... Cala la sera del 12 maggio 1943: è tregua d'armi, mia l'ultima battaglia è già stata combattuta. Il pennone è spezzato, la bandiera bruciata. Cominciava la fine, allora.
CAPITOLO 1
Con il calare della sera i francesi, avendo esaurito il loro fiorito repertorio d'insulti e forse un po' stanchi per la giornata spesa sulle soglie delle loro case, osservavano indifferenti l'autocolonna di prigionieri di guerra che continuava a passare. Delle navi da guerra avevano gettato da poco l'ancora al porto militare a Marsha-el-Kebìr e in cielo passavano rapide le sciabolate dei riflettori. I francesi erano stanchi di fischiare e d'insultare e, tenevano fra le mani il giornale che li aveva invitati sulle strade per il passaggio “dei primi 30.000 prigionieri di guerra italiani catturati in Sicilia senza sparare un colpo di fucile”. Il giornale era “ Stars and Stripes” e per 2000 franchi algerini anche un prigioniero era riuscito ad averlo. Quel prigioniero seppe così con certezza che quel giorno era il 15 luglio del 1943, e imparò che quel continuare a passare su e giù per le vie di Orano faceva parte evidentemente del giro propagandistico organizzato dal Comando Militare Alleato del Mediterraneo. E rise anche quel prigioniero, perchè né lui né gli altri si erano arresi in Sicilia ma erano stati catturati con le armi in pugno in Tunisia, due mesi prima. Nella notte. li avevano svegliati e caricati sui camion li avevano portati da Chanchy, per “imbarcarli” aveva detto la sentinella Joe. E per tutto il giorno in sù e in giù per Orano fra gli insulti e i lazzi dei francesi. Ora quel prigioniero aveva stracciato il numero di “ Stars and Stripes ” e come gli altri, stanco, aveva chiuso gli occhi. Calava la sera e l'aria era divenuta fresca. La sentinella Joe, nel buio, disse: -.Ora vi riportiamo dentro. - Dove? chiese un prigioniero. - Dove? Ripeté la sentinella Joe. Dove non lo so. Dopo un poco la sentinella Joe ruppe il silenzio. Disse: - Poco lontano. Vi portiamo poco lontano. L'autocolonna usci dalla città a velocità pazzesca e dopo non molto prese per una pista polverosa diretta al Sud. Le sentinelle e anche Joe avevano bevuto. Bevuto abbondantemente durante tutto il giorno. Cominciarono a sparare delle raffiche in aria gridando: Uuugh!, come i loro antenati. Ma i prigionieri erano stanchi e continuarono a dormire.
- Valmy! gridò la sentinella Joe a un certo punto,, sparando un colpo di pistola contro un cartello indicatore. La pista divenne più cattiva e polverosa e le macchine rallentarono notevolmente la loro andatura. Ancora la sentinella Joe sparò un colpo di pistola e gridò: - A Saint Barbe du Tlelat! Vi portiamo là, maledetti italiani! Al campo di Saint Barbe du Tlelat l'autocolonna si fermò e i prigionieri, fatti scendere, avviati di corsa ai compounds. Al compound 9 gli ufficiali. Era buio completo e i recinti esterni non erano affatto illuminati come non erano illuminati i reticolati divisori dell'intercapedine interna. Nel buio, grande confusione per la ricerca di un posto per dormire: nessuna tenda e nessuna coperta. I più si distesero a terra stretti stretti gli uni agli altri. Molti continuarono a passeggiare in su e in giù per il campo in, attesa dell'alba. Vi fu silenzio per qualche tempo. Poi una raffica nutrita di mitragliatore, seguita da un grido angoscioso e strozzato: Dio Mamma! fece scattate tutti in piedi. Un'altra raffica e un ultimo rantolo. Era stato assassinato il tenente Giardina. E l'assassino era stato una sentinella. Forse la sentinella Joe. Subito i particolari vennero sussurrati e arrivarono anche ai gruppi più lontani. Il tenente Giardina era in, piedi nei pressi del, l'intercapedine di divisione con un campo vicino. Forse guardando le stelle pensava ai suoi venti anni, alla casa, alla mamma al tutto della vita. Dall'altro lato del reticolato la sentinella Joe, camminava in su e in giù lentamente. Anche la sentinella pensava, ma non alla casa, alle pratérie sterminate; non alla ragazza. Improvvisamente si ferma e imbraccia il thompson e grida: Porco italiano! Il tenente Giardina non capiva l'inglese e non rispose. E la sentinella, Joe o Willy che fosse, sparò la prima raffica che colpì l'ufficiale italiano al ventre. Altri ufficiali si lanciarono per soccorrere caduto, ma la sentinella Joe sparò un'altra raffica sull'ufficiale caduto e disse: non avvicinatevi o sparo! Il tenente Giardina mori così senza che nessuno avesse potuto avvicinarsi. Poi venne l'autoambulanza americana e portò via il corpo del tenente assassinato. Anche la sentinella Joe al termine del. suo turno so ne andò. Ma la notte era ancora profonda e non c'era luna e il campo era tenuto completamente al buio. E nel buio le sentinelle Joe Jack e Willy azionarono la, mitragliatrice pesante di una torretta dirigendo il fuoco sul campo. Altre urla. Altri rantoli. Dei feriti, è passato molto tempo da allora, ci si ricorda solo del nome del capitano Gamba; ma furono molti. Il giorno dopo un alto ufficiale tedesco, c'erano anche degli ufficiali tedeschi in quel campo, e un ufficiale italiano: il tenente colonnello Devoto, si recarono al Comando del campo per protestare contro l'assassinio della notte precedente. - Noi abbiamo vinto, disse il Comandante del campo. Poi offrì un liquore ai due ufficiali che declinarono il piacere. Il tenente Giardina fu sepolto in un luogo perduto nei pressi del lago di Saint Barbe du Tlelat. La sentinella Joe fu decorata con la Distinguised Service Medal, e ora è a San Diego di California con la sua ragazza.
CAPITOLO 2
Dovevano passare “ ancora” dei prigionieri di guerra italiani, e i francesi, riposatisi delle dure fatiche precedenti, si erano nuovamente riversati sulle strade. Tutti i francesi: grandi e piccoli, uomini e donne, di ogni ceto e professione, avevano condotto uno studio particolare nei lupanari e nelle taverne di Orano, per arricchire di nuove ben più appropriati insulti il vocabolario da usarsi allo spettacolo che il Comando Militare Alleato del Mediterraneo continuava quasi quotidianamente ad offrire. I francesi erano ben organizzati. Al primo apparire della colonna i fischi., poi, poi libertà assoluta di parola... e dì azione. Questa volta i prigionieri di guerra italiani erano a piedi. Una lunga colonna di prigionieri a piedi. In testa alla colonna qualche centinaia di ufficiali. In testa a tutti un cappellano militare: Padre Salsa, mutilato e pluridecorato al valore militare. Ai fischi dei francesi si unirono le matte risate dei numerosissimi ed armatissimi M. P. di scorta. Fieri, al passo, i prigionieri passavano. Ai fischi e agli insulti, i gesti osceni di gentili signore affacciate a dei davanzali fioriti erano un naturale contorno. Al passo, uno due, uno due, la colonna si addentrava sempre più nella città. I visi dei prigionieri erano duri ed impassibili. Marciava in silenzio la colonna: portava con sé il ricordo del camerata assassinato a Saint Barbe du Tlelat e la tristezza della guerra entrata in casa con tanta facilità e poca contestazione. Qualcuno dei prigionieri poteva anche pensare con rammarico a una di quelle croci bianche seminate nel deserto o a uno dei tanti tumuli lasciati indietro senza segni nella lunga guerra. Il sole era alto e il caldo era soffocante. Da lunghe ore marciava la colonna: sotto il peso degli zaini tutti: vecchi e giovani, validi e invalidi. Qualcuno dei prigionieri poteva anche avere sete. Acqua al campo ne davano poca. E le borracce di chi era riuscito a salvarle dai marocchini, erano vuote. Alla svolta una bella fontana. Un prigioniero chiede a un M. P. di accompagnarlo a bere. L’M.P. lancia un insulto e colpisce al capo, con la canna del Thompson, il prigioniero, Il sangue sgorga abbondante. Il prigioniero, il carrista Piccolotto di Treviso, non batte ciglio, non si asciuga il sangue che scende +sul viso. Ride il prigioniero Piccolotto. Ride e intona un canto che parla di giovinezza e di primavera. E tutta la colonna al passo. uno due. uno due intona il canto. E i francesi ammutoliscono. Poi uno, più coraggioso degli altri, corre verso la testa della colonna e alza la mano per colpire Padre Salsa: mutilato a un braccio e pluridecorato al valore militare.
Alza la mano, il francese. Il Padre Salsa interrompe per un attimo il canto Guarda in viso lo eroico esemplare, sorride e riprende a cantare. La colonna al passo: uno due, uno due, si inoltra per la strada a mare, verso Marsha el Kebìr, verso le navi. Verranno imbarcati i prigionieri di guerra. - Per l’America, grida un M.P. Ai moli di Marsha el Kebìr centinaia le navi attraccate. Il mare leggermente increspato. La colonna dei prigionieri di guerra italiani si incrocia con una colonna di prigionieri tedeschi dal PAK. Le colonne si fermano per qualche istante. Un ufficiale italiano e un ufficiale tedesco si riconoscono. La guerra combattuta fianco a fianco è stata lunga e sanguinosa e bella anche nella sfortuna. Si abbracciarono. Sidi Rezegh e tanti altri nomi di battaglie sono sulle labbra. Il tenente Antonio Rafauf della XV Panzer racconta. per inciso di tre colleghi assassinati in quel mese al campo 9 di Chanchy, dagli americani. Le colonne riprendono a muovere in due diverse direzioni. Verso due moli diversi. I saluti fra gli uomini delle due, colonne che si allontanano, continuano. Molto tempo è passato, ma ci si ricorda di molti che gridarono: Immer Zusamen! e che alla prima occasione abbracciarono la causa delle Stars and Stripes. “Stars and Stripes“, ancora “Stars and Stripes”. Fatte poche, centinaia di metri la colonna dei prigionieri italiani venne fatta fermare sotto una nave, Liberty di tipo, si seppe in seguito. Dei francesi arrivati fino ai moli agitavano de giornali e ridevano. Ridevano sgangheratamente. I prigionieri stanchi e sudati si erano seduti sugli zaini. - Ehi! disse un francese. - Ehi! ripetè un altro francese. -.Ehi! Chi di voi ha dei figli? chiese un altro ancora. Molti visi si voltarono. Vi fu un attimo di silenzio, poi uno degli italiani, il Capomanipolo Fava, caduto poi in onorata prigionia di guerra in America, rispose. - lo. Io ho dei figli. Perchè? Nuove risate dei francesi che agitavano freneticamente i giornali. - Capiterà questo - disse infine uno, e lanciò il giornale verso i prigionieri. Il giornale era “Stars and Stripes”, e raccontava del primo bombardamento di Roma. San Lorenzo. Molti prigionieri avevano le lacrime agli occhi. I francesi ridevano. Era il 20 luglio 1943: anche questo diceva il giornale. Il mare leggermente increspato. I draken, di sbarramento, immobili nel cielo, brillavano al sole. La nave, una Liberty, aveva un nome: ' P.A.8. E i prigionieri guardavano la nave. Molti guardavano oltre la nave. Oltre il limite del mare, verso casa. I pensieri erano tutti tristi.
Da bordo, dei marinai si divertivano a sputare sul molo. E ridevano quei marinai perchè gli sputi colpivano i prigionieri.
I prigionieri erano ammassati sotto il bordo della nave e non potevano scansarsi.
Finalmente, dopo ore e ore di attesa sotto il sole, senza acqua e senza mangiare, cominciò l'imbarco.
Cominciò l'imbarco, ma i prigionieri non vennero fatti salire per la passerella. No. No, vennero fatte calare lungo il fianco della nave le reti d'imbragaggio, e i prigionieri, con lo zaino in spalla, cominciarono ad arrampicarsi.
Era un diversivo, uno spettacolo anche quello offerto dal Comando Militare Alleato. Come ridevano i marinai e. gli M. P. americani Come ridevano! Certo erano buffi quei prigionieri che non riuscivano che con molta fatica ad arrampicarsi.. Quei vecchi ufficiali poi, che si facevano aiutare per salire quei sette o otto metri di corda!
Ma a coloro che riuscivano, dopo molti sforzi, a scavalcare il bordo, l'accoglienza. non mancava.
Non mancava il saluto a base di un colpo di bastone, in quel caso una mazza di base ball, uno spintone o un calcio. E giù, “Italian pigs”, giù, nelle stive.
Dopo molte ore le stive furono piene, piene zeppe.
Il cielo cominciava ad imbrunire. Gli M. P chiusero i boccaporti.
Rimasero chiusi per quattordici giorni, quasi completamente, quei boccaporti.
Quattordici giorni di traversata, verso l'America. Quattordici giorni di dolore con l'unico conforto: “La guerra continua! ”.
La nave si chiamava P.A.8. e il suo comandante era forse stato negriero.
CAPITOLO 3
Solo le “ maniche” convogliavano giù un po’ d'aria che i prigionieri cercavano di rubarsi l'un l'altra respirando il più profondamente e frequentemente possibile.
Non c'era molta aria in quelle stive. I boccaporti chiusi e ben guardati dagli M. P. con il Remington dal proiettile in canna. C'era il desiderio di aria buona in quelle stive piene zeppe dì uomini che non potevano lavarsi.
Magari solo due minuti al giorno sopra i ponti. Ma il Comando aveva altro a cui pensare.
C'era il desiderio di roba calda per ì malati.
Magari la risciacquatura, delle pentole del caffè.
Ma non: c'era tempo per riscaldare la risciacquatura; l'equipaggio pensava agli U. Boots.
Gli U. Boots.
L'aveva detto il comandante della nave. “Se ci attaccassero gli U.Boots non sperate di salvarvi; voi, cani... ”.
Cani. Cani Italiani. Aveva detto così anche quell'M. P. del New Messico, dopo aver rotto il capo con un colpo di bastone al tenente Zaccherini...
I prigionieri sapevano che non avrebbero mai potuto salvarsi nonostante il salvagente di Kapok generosamente. distribuito.
I boccaporti chiusi. E i salvagenti buoni per appoggiarvi il capo.
Certo, stando così a occhi chiusi,' veniva da pensare al caso occorso mesi e' mesi prima a una nave inglese carica di prigionieri italiani... I boccaporti chiusi...
Era stato all'altezza di Casablanca, il siluramento. All'alba. La nave viaggiava isolata... Era una nave veloce, di linea,. Veniva da un porto del Sud Africa... Portava a bordo anche le famiglie di alcuni ufficiali inglesi che rimpatriavano... All'alba... Il mare doveva essere come l'olio, liscio... la costa non era lontana... e forse la guardia di coffa osservava il sole che nasceva lontano, dal deserto...
I boccaporti chiusi...
Qualcuno degli alti ufficiali italiani che in quel tempo prestavano servizio a Casablanca o. Orano o Algeri presso la Commissione Italiana Armistizio con la Francia, potrebbe raccontare i particolari... Potrebbe, per esempio, raccontare di quel prigioniero italiano, che portata a salvamento su un zatterone la moglie di un ufficiale inglese, quando fece l'atto... di aggrapparsi.. fu freddato da un colpo di pistola...
Il mare era tranquillo. Il capo appoggiato al salvagente di kapok e gli occhi chiusi. Buonanotte mamma...
La nave beccheggiava lentamente: la rotta era Sud-Ovest.
Il vitto ora scarso. Gli organismi indeboliti a non credere. I malati, alla stiva di prua fungente da infermeria ospedale e quanto altro sotto la direzione del Prof. Sostegni e del Dott. Salvadori, molti.
La nave seguiva la sua rotta.
Di U. Boots neanche l'ombra.
Il mare sempre tranquillo. Il cielo, a giudicare da quell'angolino di cielo che si poteva vedere. dal finestrino dei boccaporti, sereno.
Un mattino fece l'apparizione fra i prigionieri il comandante della nave. Rideva e bestemmiava.
Rideva. Agitava un foglietto e urlava un misto di. parole inglesi e italiane.
- Mussolini... disse.
I prigionieri alzarono debolmente il capo per meglio udire. - Mussolini,...
Un prigioniero prese il foglietto dalle mani del comandante.
“ Dáily News ” - P. A. 8. Julv 26.
July 26. Portava notizie del 25 luglio.
- Mussolini... diceva, l'americano.
- Il Duce... sussurrò un prigioniero appena ventenne. E quel prigioniero ventenne guardava stupito certi. ufficiali superiori che gridavano: “Evviva!”.
“Da'ily News” , P. A. 8. July 26.
Gli occhi velati dalle lacrime avevano anche letto della guerra in casa... dell'isola abbandonata e delle dichiarazioni di un generale catturato a Palermo.
.“lo sono sempre, stato con voi... Vi aspettavo... ”.
Con voi: cioè con le “ Stars and Stripes” contro il tricolore.
Il prigioniero si asciugò le lacrime.
“ La guerra continua ” Il tedioso e monotono rullio della nave: il gran caldo e la fame e quell'incessante martellare dei marinai che scrostavano le soprastrutture, non permettevano molto di pensare.
Ma era un. dolore grande, quello causato dalla notizia scritta. sul,“ Daily News ” del July 26: era un dolore grande ma da buoni soldati non bisognava considerare la cosa dal lato sentimentale. ma, aggrapparsi con t,tte le forze e con tutto lo spirito alla promessa: “ La guerra continua”. Perchè quello in definitiva contava.
C’erano tutte quelle croci sparse nel deserto i tumuli dispersi, le tombe senza segni di sorta i corpi insepolti: c'era tutta la guerra e tutto lo spirito con cui era stata combattuta, e non bisognava dunque piangere dal momento che quella guerra continuava “lo stesso”.
Faceva molto male però sentire imprecare e, maledire tutto quello che prima era stato osannato.
Faceva schifo sentire parlare contro una guerra fin lì Combattuta, sentire denigrare il valore. La nave andava per la sua rotta e aveva da poco doppiato le Isole del Capo Verde e qualche Colonnello, magari già squadrista come un tale di Prato, vantava il “boicottaggio” alla guerra “ perduta” e raccontava... raccontava...
I marinai battevano forte per scrostare le strutture della nave, e le mani erano premute disperatamente sugli orecchi per non udire...Tutte quelle croci sparse nel deserto,... e quelli che raccontavano... raccontavano... Ben dato quello schiaffo, moschettiere Vianello.
- E' arrivata una nave, di spettri, dissero i bambini di Newport il 4 agosto 1943.
Sbagliavano i bambini di Newport.. era. semplicemente arrivata la P.A.8. con il suo carico di prigionieri.
Il comandante negriero dall'alto del ponte di comando attendeva con gioia libidinosa l'apertura dei boccaporti.
Sostenendosi l'altro i primi prigionieri arrivarono sul ponte.
I visi bianchi ed emaciati guardarono il cielo.
C’era ancora il sole, grazie a Dio!
Quella terra che si vedeva. era l'America.
CAPITOLO 4
Era un mattino del settembre quarantatré. Sarebbe stato un mattino uguale era la convinzione di tutti gli altri: questa era la convinzione di tutti. Del resto quale avvenimento sarebbe stato tanto importante da alterare in un qualche modo la vita del campo?
Lo stato di prigionia era una cosa abbastanza nuova, ma ognuno era ormai convinto che nulla avrebbe potuto alterarne la monotona tranquillità.
Era dunque un mattino come tutti gli altri Una leggera cortina di vapori ancora il campo. Le cose erano sfumate e indefinite. Qualche ombra passava veloce sui ballatoio antistanti alle baracche.
Solo quando il sole riuscì a penetrare la nebbia; e a fugarla velocemente, l'animazione del campo prese un ritmo accelerato.
Le baracche erano tutte ugualmente nere, tutte ugualmente squadrate, bene in fila e allineate.
I reticolati erano nuovi, ben lucidi e tesi e si intravedevano da ogni punto tagliare la fascia del cielo. Dopo il reticolato la terra non aveva limite e orizzonte e tutto si perdeva nella desolazione dei campi di cotone.
Il caldo era soffocante. Qualcuno aveva per le mani il “Commercial Appeal” che usciva a Memphis o un vecchio numero del “Life”. Nel campo di bocce facevano la pulitura. Gli M.P. alle torrette si annoiavano. Lo spaccio era affollato i soliti racconti di guerra e, i particolari della traversata.
Quelli della P.A.8. cercavano di convincere un gruppo che aveva fatto il viaggio sulla “ Queen Mary” dello schiavistico trattamento ricevuto durante il viaggio. Altri bevevano le Coca Cola a cinque cents e altri sorbivano gli “ice cream”
Improvvisamente una fucilata ruppe l'aria e si ripercosse nel silenzio divenuto subitaneo Un'altra fucilata ancora poi un gridare confuso: Assassini! Assassini
Corsa pazza di tutti verso i reticolati interni. Un soldato giaceva riverso a una decina di metri dall’”Off Limits ”. L' M. P. alla torretta aveva sparato e ora, teneva il fucile puntato e gridava nella sua lingua comancha di non avvicinarsi.
Arrivarono degli ufficiali americani: il ten. Woods e il capt. Anderson: fecero un cenno sentinella e un medico si poté avvicinare al ferito. Alte erano, sempre le grida: Assassini, e gli americani sorridevano e dicevano “Okay”. Portarono via il ferito e anche la sentinella ebbe il cambio.
Mentre gli uomini tornavano silenziosi alle baracche improvvisa corse una voce. Una voce terribile agghiacciante che fece tremare il cuore e sbiancare in viso.
-.L'Italia ha deposto le armi.
Questa la prima notizia cruda, poi col passare, delle ore mentre folti gruppi commentavano soddisfatti l'avvenimento altre notizie penetrarono nel campo. Portate dagli M. P. e dal “Private,,del Post Office.
“ Italy has surrendered its armed force unconditionnally”.
Incondizionatamente! E l'Onore, Signore ,Iddio?
Poi ancora coi calore della notte, la radio: La flotta italiana è in rotta per Malta ad arrendersi.
Resa incondizionata all'insaputa dei tedeschi - Fuga di Vittorio Emanuele da Roma Fuga di Badoglio, fuga del Governo - Crollo! E per tutta la notte il messaggio di Eishenower trasmesso dalla C.B.S. “Unconditionally”!
Tutta la guerra combattuta, tutto quel sangue versato, quelle croci sperdute, tutta la giovinezza, tutto tradito e rinnegato! E la speranza grande nella promessa: “la guerra continua ”!
E i signori Colonnelli a brindare con i Coca, cola a cinque cents, sulla disfatta!
E tutti i signori Colonnelli a vantarsi: Massoneria! E quel Colonnello di Prato a scucire rapidamente dalla giubba il distintivo da squadrista! Nella chiesa del campo, qualcuno pregava per la Patria e piangeva della rovina grande. Era l'8 settembre 1943.
Nell'ospedale del campo un prigioniero moriva.
Le belle navi nel mare tranquillo andavano a Malta.
E l'onore, signore Iddio?
“ L'Onore militare non esiste i ” disse il Colonnello Bragantini. Era il 9 settembre, e nella notte molte cose erano corse per i cervelli. Molte cose. Tenente Biondo, tenente Licitra, capitano Ardigò, tenente colonnello Torta, ricordate le parole? L'Onore militare non esiste!
Dove sei andato Giovane Fascista di Bir el Gobi, che rispondesti: - Ma signor Colonnello, per l'onore militare io vado a morire!
Ci si ricorda molto bene di certe lettere affisse allo spaccio e nella sala convegno dove “ qualcuno ” si vantava di aver boicottato la “nostra ” guerra e dì essere stato da molto tempo in rapporto con gli americani!
Una grande tristezza era scesa sul campo. Gli animi erano divisi e le fazioni avevano, preso a dominare. Per il Re. Contro il Re. Per la Repubblica. Per il Duce.
-Tanti scoprirono, di essere /stati sempre antifascisti e pochi erano stati iscritti.
Gli americani dall'alto delle torrette commiseravano tanta miseria.
Liste bianche e liste nere e liste rosse sul tavolo dell'Intelligence Officer !
Era divenuta così anche l'Italia, del resto. Una Babele, il campo. E il “New York Times” riportava la frase dell'ammiraglio comandante la flotta inglese all'ammiraglio delle navi italiane arresesi. “Signore, avrei preferito incontrarvi in battaglia"
L'onore, signore Iddio!
Finiva ottobre quando nel campo fece la sua apparizione un certo capitano Marioni del corpo automobilistico. Disse masticando cheeving guum che Gazzera aveva inventato l’A.I.L.V.M. ossia l'Armata Italiana del Lavoro Volontario Militare. Poiché l'Italia in quel tempo aveva dichiarato la guerra alla Germania. L'Italia del Sud, il Regno aveva fatto questo. Noi eravamo già, precursori, per la Repubblica.
Anche Gazzera che fino a pochi mesi prima aveva firmato le tessere del Fascio, correva al ripari.
E il Maresciallo del tradimento vendette in quei giorni i prigionieri italiani al detentore. E anche fra i migliori cominciò la lotta. Kaman? per gli americani. Anti-kaman, contro gli americani.
Liste bianche. Liste nere. Liste rosse. E gli M. P. gongolavano.
Nel dizionario Webster un nuovo verbo era stato coniato: To Badogliate. To Badogliate: tradire.
Tradire in un modo particolare, speciale, il non plus ultra del tradire, insomma.
E cominciarono a partire per le Italian Service Unit's, i nostri vecchi camerati di guerra.
Il venerabile vecchio languiva nell'angusta stanza dell'Ospedale del Monticello P.O.W. camp. Era, sempre, solo. Gli M.P. vegliavano alla sua porta. Era pazzo, dicevano i generali del campo. “E’ pazzo! Dice viva Mussolini ! ”.Infermiere Morbiducci potresti raccontare il pianto del venerabile vecchio. Il nostro generale: Annibale Bergonzoli, Medaglia d'Oro!
Fu gettato pazzo a languire per tanto tempo nell'ospedale militare reparto psichiatrico di New York, dalla cattiveria degli altri italiani. Perchè Barba Elettrica era contro il tradimento.
Una cella imbottita di caucciù e tante angherie contro Annibale Bergonzoli, che credeva ancora nella Patria e nell'Onore Militare. L'onore delle I.S.U.: lavanderia e patate e bombe sulle navi in partenza da Boston e divisa nemica: italiani sfruttati e portati all'I Promise dalla fame dalle minacce di rappresaglia alle famiglie da parte della democrazia americana alleata al Governo Badoglio.
Finiva l'anno 1943. Fu molto triste quel Natale, ma un nuovo tricolore era salito sul pennone spezzato a Enfidaville: per l'Onore!
CAPITOLO 5
Il vento di Sud 0vest non soffiava più da, vari giorni. Il cielo era chiaro e pulito e la neve aveva cominciato a sciogliersi. Qualche filo d'erba era nato nei pressi dei reticolati e i camini delle baracche non fumano più con la stessa intensità. Era aprile e una prima mandria di cavalli era stata vista passare all'orizzonte.
Le sentinelle alle garitte e' alle torrette osserva., vano il lento risvegliarsi del campo.
Era aprile di un anno lontano. La prigionia durava già da lungo e gli uomini dicevano che il tempo si era fermato.
Nelle baracche il, silenzio era: grande. Un silenzio ossessionante rotto solo dal fischiare del “ tornado ”. El tornado, così veniva chiamato là quel maledetto vento di Sud Ovest.
Il tempo si era fermato: i giorni tutti uguali o monotoni.
L'inverno era stato molto lungo e alla sera faceva ancora freddo. Qualcuno raccontava
nell'intimità dei box dell'ieri e dei sogni del domani. Ma tutti con il cuore fermo e fisso al punto lontano: Cassino!
Il 20 aprile 1944 nel 1 Compound dell'Hereford POW Camp, situato nell'altopiano del Texas, la vita trascorreva lenta e monotona come gli altri giorni. Nelle baracche, interminabili le partite a bridge e interminabili le discussioni attorno alle stufe accese.
I prigionieri che passeggiavano per il campo ogni tanto si soffermavano a guardare la bianca costruzione dell'ospedale o i primi fili d'erba che nascevano nei pressi del reticolato. Poi riprendevano a camminare, silenziosi. Il pensiero fisso al punto lontano: Cassino. E anche alla guerra che durava lontano e. passava lenta e inesorabile travolgendo casa per casa. Ora erano riuniti lì, quasi tutti, gli ufficiali non cooperatori. Mancavano gli “anti-kaman” di 'Como e di Monticello.
Ma,sarebbero arrivati molto presto, sicuramente.
Era il 20 aprile 1944.
-.Domani è il Natale di Roma, dicevano gli Ufficiali italiani del Compound One.
Anche al Comando Americano del Campo si diceva la stessa cosa.
- Domani è il Natale di Roma.
E dal Compound, dove erano ancora gli Ufficiali “ pro-kaman”, era atteso uno spettacolo.
E il Comando Americano diede lo spettacolo.
Era, il 20 aprile 1944 e, calata la sera, al Compound One, gli Ufficiali avevano cominciato a coricarsi.
C'era chi pregava e chi imprecava e chi taceva guardando una fotografia sfilata di soppiatto dal portafoglio consunto Era l'ora più temuta della giornata quella in cui il silenzio pian piano filtrando nelle baracche copriva ì discorsi e le parole. Più d'una guancia ruvida si rigava di lacrime a quell'ora e c'era chi divideva con il compagno vicino ricordi del tempo passato raccontando di unm giorno in cui una fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli biondi...
A poco a poco le luci furono spente e il silenzio fu completo.
Rapide corse di luce sul campo addormentato: ronzio della -macchina armata in perlustrazione continua attorno al campo e. ululato di coyote.
Lontano lontano, a casa, il cannone rombava, Cassino. Cassino.
E nella notte stellata improvvise e alte le fiamme di una baracca incendiata.
Improvviso e alto l'aaaoon delle sirene. Cominciava lo spettacolo….
Dal cancello dei Compound, nel medesimo istante in cui le. sirene presero a suonare, entrarono a passo di carica, ben armati di mazze, le solite mazze da base-ball, quattro o cinquecento americani....
Le porte delle baracche furono spalancate e ai prigionieri, cani italiani, botte…botte... botte da orbi.
Qualcuno dei prigionieri aveva letto nei libri di Zane Gray e di altri autori di Western's di un certo “supplizio del corridoio” in uso presso i selvaggi indiani Comanchi. In quella notte del 21 aprile 1944,, settantacinque ufficiali, già gravemente feriti al capo nella vigliacca irruzione nelle baracche, dovettero sottostare al “supplizio del corridoio” improvvisato dai diretti discendenti di
quei famosi indiani Comanchi. Indiani Comanchi, perchè non erano altro che indiani Comanchi, quelli travestiti da soldati americani. L'Amarillo Times e l'Amarillo Daily News di quei giorni riportarono qualcosa del grave incidente avvenuto, nel Pow Camp di Hereford.
Fu accertato dal Comando italiano del campo dei prigionieri non cooperatori, che l'incendio della baracca, alibi, giustificativo portato poi dal Comando americano, era stato provocato appositamente per dare modo di impartire la, lezione. Ed ancora più grave risultò la premeditazione da parte del detentore nel fatto che sin dal pomeriggio avanti l'ospedale era in allarme e che tutto era pronto per le medicazioni.
Fra i feriti di quella notte si ricordano i nomi del Capitano Cristofori, Tenente Ristagno, Tenente Florio, Tenente Azzalli: ma furono settantacinque. Può darsi che il Capitano del Genio Navale Salsa o il Tenente Busia dell'Istituto Luce conservino le fotografie fatte, in quella notte non certo dimenticabile, e che il Capitano Salomone nella raccolta di “Rassegna”, sia riuscito a portare in Patria i ritagli dei giornali.
Il 21 aprile 1944 a Monticello Camp nell'Arkansas apparve affisso a cura del Comando americano del campo, un manifesto, diretto principalmente agli ufficiali della IV Compagnia non cooperatori, in cui si minacciava la Cajenna a chi non avesse cooperato o firmato il cosiddetto “I Promise ”.
Lo stesso giorno fu fatta una domanda a tutti gli ufficiali della IV Compagnia:
“Are you, a fascist?”.
“Yes. I am fascist”.
“ Cajenna ”
Il 1 maggio quattrocento e venticinque ufficiali non cooperatori dei campi, di Como e di Monticello erano inquadrati nel viale centrale di quest'ultimo campo: destinazione: Hereford, Texas.
Il silenzio era assoluto. Il cielo era nuvoloso e gli alti alberi rendevano triste l'atmosfera.
Schierati presso. i reticolati dei campi prospicienti il viale d'uscita dai Compounds, i soldati, e i sottufficiali non cooperatori, perfettamente inquadrati per battaglione, rendevano il saluto a braccio teso e allorché la colonna di ufficiali prese a muovere, ruppe un canto. Il canto che in quei giorni voleva. dire molto dì più di' una fede politica perchè impersonava la difesa dell'onor militare, del passato militare e dell'avvenire militare della Patria.
E sul canto un grido alto che commosse e fece piangere: - Evviva i nostri ufficiali
Furono momenti indimenticabili quelli e furono per molto tempo il conforto nella dura attesa.
- Evviva i nostri soldati!
I nostri soldati: tutti nel nostro cuore. Nella notte nei pressi di un villaggio il trasporto si incrociò con un treno carico di tedeschi. Erano del P..A.K. Fu scambiato un, grido di saluto e fu cantato “ Camerata Richard”. I morti sepolti vicini vicini a Bled Boucha, a Sidi,Tabet e a Enfidaville, l'ultimo giorno. L'ultimo. giorno: prima
dell'ammaina bandiera. L'ultima bandiera.
L'ultima bandiera: attorno tanti morti e tanto sangue giù Per le balze di, Enfidaville: un anno prima.
E il 10 maggio, del 1944, nel campo di Ruston nella Luisiana..., alta nel cielo era la bandiera americana.
- 10 maggio festa dell'esercito americano.
Tutte le forze americane pronte a sfilare sotto la bandiera.
Iniziò la sfilata delle truppe americane: la bandiera, Stars and Stripes, svettava gloriosa nel cielo: e dietro le truppe americane, Colonnello Bragantini in testa, sfilarono alcune centinaia di ufficiali italiani aderenti alla I.S.U.
Era il 10 maggio 1944... Solo un anno era passato. Le ferite ancora aperte, i corpi ancora caldi nelle fosse.
Dal cielo gli eroi italiani guardavano.
A Cisterna combatteva il “Barbarigo”.
CAPITOLO 6
Le mandrie di cavalli passavano più frequentemente all'orizzonte e l'erba cresciuta ai margini delcampo era divenuta alta e una grande serenità era nel cuore di tutti. Le rondini volavano basse sulla terra e qualche usignolo si posava a cantare sui fili tesi del reticolato.
Il cielo era sereno più lento era l'ammassarsi dei prigionieri dei compounds tre e quattro dell'Hereford Camp.
Gli uomini vestivano divise kaki slavate e l'azzurro dei nastrini era stinto.
Quando il sole fu alto nel cielo l'ammassa mento degli uomini era terminato e dai blocchi frontalmente disposti un canto si levò a salutare il sole di Roma.
Padre Salsa alzò al cielo una croce e benedisse i morti e i vivi e baciò una piccola, bandiera tricolore solcata nel bianco da un'aquila nera.
Non fu celebrata una messa, ma gli uomini dissero la loro preghiera: preghiera di soldati che si sperse dolcemente nel silenzio grande della natura.
Era. il 9 maggio 1944 e per l'ultima volta ranghi serrati di. soldati italiani ricordarono il giorno. Il sole declinò lentamente e il crepuscolo dipinto a tinte violente nel cielo trovò gli uomini a pensare alla Patria lontana dove rombava il cannone e dove la terra era, grazie a. Dio, contesa.
Poi fu notte e di lontano giunse il canto dei cow boys.
Le sere divenivano sempre più lunghe e sempre più belli erano i tramonti. Ogni tramonto era uno spettacolo a sé e ogni sera silenziosi gli uomini sostavano a guardare e a meditare o forse seguivano i palpiti del cuore che portavano tanto lontano.
C'era chi raccontava di amarezze passate e di speranze e di lotte e di vendette. Certo il rosso cupo di quel tramonto a strisce gialle e turchine e continuamente cangiante in infinite sfumature, conciliava piuttosto a pensieri d'amore e di pace.
Ma nel pomeriggio di quel 10 maggio il campo 3 era stato improvvisamente svuotato.
Il capo Capriotti, medaglia d'Oro, aveva, fatto però a tempo a radunare i suoi uomini e a gridare, il saluto agli ufficiali.
Quell'Evviva l'Italia perdurava ancora nell'aria tiepida.
A. Fort Bliss, d'urgenza, tutto il campo 3.
-Cooperazione forzata! aveva detto sorridendo il Ten. Russo, un italoamericano che la notte. del 21 aprile era entrato con, una mazza in una delle celle della prigione e bastonato a sangue il caporale Tufanelli. Sarebbe stato promosso capitano, per, questa sua magnifica azione.
Cooperazione forzata. Il capo Capriotti aveva riso e con i suoi uomini, incolonnati lungo la pista sabbiosa che menava alla ferrovia della South Pacific Company, aveva intonato la canzone dei sommergibilisti.
“ Cooperazione forzata”. Come era in atto in Africa nei campi controllati dagli “alleati ”.
Il cielo era tutto egualmente scuro, pieno di stelle.
Mazzucchelli, Farinella, Battaglini e Zecca erano arrivati da poco da quel campi d'Africa e raccontavano. "Cooperazione forzata”.
Primo stadio:imbonimento inaugurato con il giro d'ispezione ai prigionieri italiani del generale Castellano, quello dell'armistizio.
Secondo stadio per i renitenti: isolamento e finte fucilazioni; poi bastonate e fame.
Ai , malati nessuna cura previa firma del’”I promise ”..
Ma a Hereford non si sapeva che i campi, i criminali campi, fossero guardati da M. P. italiani.
Gli M. P italiani, bravi encomiati collaboratori che sostituirono le guardie americane e marocchine nel servizio di vigilanza ai campi. Le “ segnorine ” francesi di Mascara, St. Denis, Chanchy e Orano erano molto grate agli M. P. italiani, che davano modo, ai boys di essere liberi la sera.
- Peggio dei veri M. P.! Capitava che qualche ragazza francese lasciasse andare la faccenda della pugnalata alla schiena, quando si presentavano sotto le spoglie del vincitore...
Grandi conquiste dunque per i collaboratori nei lupanari di Orano e di Algeri e dei paesi più infimi dell'interno! E quanto mangiare mentre al dì là del doppio filo spinato i “ compatrioti” morivano di fame. I campi dei “repubblicani ”: quelli dei renitenti.
Già perché allora era molto di moda l'Evviva il Re anche nei campi d'Africa.
-Chi non è monarchico non è italiano l'ha gridato parecchie volte il Colonnello Straziota, già dei 7° Bersaglieri.
E chi non era monarchico... “Cooperazione forzata”... o ai lavori forzati, alla Transahariana, dove gli italiani morivano come mosche.
Ma mai una protesta, vero Governo Italiano del Sud, per quegli italiani che, erano trattati come bestie.
Finiva maggio e gli M. P. cercavano il guardiamarina Montalbetti. Lo cercavano già da alcuni giorni. Da tre giorni precisamente. E al terzo giorno all'Albo del Comando Italiano del Campo apparve un 0.d.G. a firma del Generale Comandante del Campo. Portava “un encomio solenne per il guardiamarina Montalbetti, assente giustificato dal campo”
Era cominciata l'epoca delle fughe.
E l'Ufficio fughe fu molto attivo. A dispetto del Ten. Dinan, capo dell' Intelligenee Office, in un mese i reticolati furono tagliati dodici volte.
E di dodici fughe, tre riuscirono. Meta il Messico o Los Angeles poi l'Argentina.
La Radio di Amarillo annunciava la fuga, dal campo di Hereford di pericolosi fascisti.
Attenzione! Attenzione! “A dangerous fascist... ” ecc...
Ma a quelli ripresi: segregazione, fame, botte da orbi.
Botte a rompere le ossa non è vero Col. Mariconda, Capitano Ghisi, Tenente Pandolfini, Capitano Salomone?
Che peccato essere stati prigionieri degli “alleati ”! Certo che se ci si fosse trovati in un altro paese si sarebbe potuto contare sul compiacente aiuto dei nativi a cui poi qualche speciale attestato di riconoscenza non sarebbe mancato. Che gente i civili americani! Aiutavano a catturare i prigionieri fuggitivi invece di nasconderli e aiutarli...
C’era tristezza i n tutti anche se il cielo ora azzurro e sereno e l'aria profumata. “Gli alleati ” avanzavano su Roma.
Il vecchio Generale Scattaglia diede la notizia.
Il campo tutto inquadrato. “Roma è caduta".
E un brivido e un’angoscia. 
Poi la sera la C.B.S. disse dei “ fiori” e degli abbracci a Clark e... la Rivista “ Collier's ” porto un articolo di Frank Gervasi sulle donne. Italiane che “si ottenevano” con una semplice caramella...e sul New York Times si lesse di un “appartamento affittabile a Pálm Beach a tutti eccettuati i negri e gli italiani”.
E in quei, giorni un nuovo interrogatorio.
- Se volete rimpatriare dovete collaborare.
Volete collaborare?
- No.
- Dunque fascisti?
- Italiani.
- Fascisti?
- Italiani... fascisti... quello che vi pare. ., ma non rompeteci le scatole ...
Disse il Colonnello Calworth al Generale Scattaglia:
- Veri soldati questi ...
CAPITOLO 7
Faceva molto caldo nel Texas e i funzionari del Censor Office lasciarono passare, con un paccodi vecchie riviste, anche una lettera. La voce si sparse rapidamente per il Campo. Era la prima lettera che arrivava dall'Italia. Le altre lettere, lo si dava per certo, venivano distrutte a Fort Meade dove era il Box 20 del General Post Office.
Ora, questa lettera fece il giro del Campo e fu letta da tutti e venne anche affissa all'Albo del Comando Italiano.
Era un figlio sedicenne che scriveva al padre, e nella lettera si diceva, di tanto amore per quella Patria martoriata e tradita e del fermo proponimento di tenere, tenere fino all'ultimo. Fino all'ultimo, figlio mio. Fino all'ultimo.
Sulla rivista “Olimpia” “edita” nel campo cura di Boscolo Anzoletti, venne, riprodotto il francobollo portato da quella lettera. Raffigurava un tamburino che suonava l'Allarmi!. Quella lettera fu la prima notizia diretta dalla Patria che combatteva ancora la “nostra ” guerra.
~ Ma in quei giorni di ottobre al solito bollettino captato alla radio del campo e che Veniva letto nella sala convegno si aggiunse un notiziario speciale. “Altre notizie”: veniva chiamato quel notiziario speciale.
Altre notizie: la voce di Radio Milano.
C'era sapore di Risorgimento in quelle enfatiche trasmissioni, captate dalla piccola radio donata dall'YMCA e sapientemente “ manipolata ” dal Capitano dei G. N. Salza. Nomi cari alla nostra giovinezza: la divisione “Mameli ”, la divisione “Italia ”; e su questi nomi tutto un seguito di fantasticherie che facevano rimpiangere la triste sorte di essere tenuti lontano da dove si combatteva la guerra dei disperati.
Fino all'ultimo, figlio mio. Fino all'ultimo.
Poi una sera l'attesa del notiziario speciale andò delusa.
Si seppe che c'era un informatore nel campo e che gli americani, avvertiti, vigilavano.
Attorno al “posto di ascolto ” fu stretto, per ordine della “Baracca 312” la Casa del Fascio, un rigoroso servizio di sorveglianza.
E per quanto fossero improvvise le irruzioni degli M, P., mai il Tenente Dinan riuscì a “scoprire ” le onde corte. Ogni perquisizione era una beffa per l’Intelligence Office, perchè la “onde corte” ora proprio a portata dì mano e bene in mostra su un tavolo della Sala Convegno.
L'ha saputo molto tardi il Tenente Dinan che i sigilli della radio erano stati “resi mobili” !
Ed era forse per questo “ scorno” perpetuo che i bravi M. P. rubavano le scarse cose rimaste ai prigionieri e distruggevano le fotografie di mamme o dei cari lasciate incustodite nei box. Si, forse era per questo, che si toglieva al prigioniero l'ultimo conforto in tanta rovina: quello di guardare, guardare all'infinito le immagini delle persone amate che il tempo e la tristezza facevano di tutto per rendere sbiadite e lontane. Si, era per questo.
Il Colonnello Calworth aveva dato precise istruzioni, nel rapporto agli ufficiali addetti ai campi, sulla “starvation ” morale dei prigionieri.
Ma il morale era alto e mai si seppe che quella piccola onde corte” dall'ingegno di Salza e dalla, benevolenza di un M. P. di origine tedesca, Otto R. W. del Montana, era stata trasformata in trasmittente.
Ma il desiderio di poter fare pervenire un messaggio dalla Radio del Campo Repubblicano di Hereford: un messaggio alla Patria lontana, che giungesse di conforto nell'ora dura vigliaccheria e del doppio giuoco: non poté mai avere il suo compimento.
E in quei giorni di passione, tramite la Legazione Svizzera, vennero inviate numerose domande affinché il Campo di Hereford fosso considerato di “prigionieri repubblicani” .E sempre più si stringevano contro gli “antikaman” i provvedimenti del War Department.
E nell'ottobre cominciò. la “starvation” morale.
Ore e ore gettati nei campi aperti al sole. Ore e ore alla sete. E alla fine quando il sorridente Colonnello: Calworth domandava: - Collaborate?. era sempre il medesimo primaverile canto di Giovinezza la risposta.
-Very Soldiers!
Il Comando Americano del Campo era situato nelle vicinanze dell’Ospedale, fuori dal recinto.
Un bell'insieme di baracche con una strada asfaltata che portava ad Amaríllo City.
IL Colonnello adunò un giorno attorno a, sè tutti gli ufficiali addetti ai campi e commentò un ordine dell'8. Servizio del War Department. Diceva quell'ordine di un nuovo tentativo per, indurre alla collaborazione e di usare dei “mezzi” a disposizione, sapientemente e per gradi.
Alle 22 di quella sera suonarono le sirene di allarme e i 4 campi furono invasi dagli M. P. e da un congruo rinforzo di truppe chiamate da un campo, di addestramento vicino.
Tutti i prigionieri furono cacciati dalle baracche e portati nei recinti aperti.
Ormai era settembre e le notti erano fredde. E per circa tre giorni tutti furono lasciati all'aperto. “Perquisizione a fondo”.
Il Magg. Baldeschi funzionava da interprete e accompagnando un paio di M. P. nel box di un ufficiale, si oppose a che venisse strappata una fotografia di mamma.
Gli ordini. dovevano essere precisi perchè fu aggredito e bastonato dai bravi M. P.
Quando il Generale Comandante del Campo fece le proteste per i soprusi e le sopraffazioni in netto contrasto con la Convenzione di Ginevra, il Colonnello Calworth rispose: - War is war, Generale! E le convenzioni di Ginevra sono le convenzioni di Ginevra, qui siamo negli Stati Uniti, Generale! Credo che vi convenga dire ai vostri ufficiali di collaborare. E' meglio per loro... altrimenti...
Ma era ben vivo nel cuore quel tamburino che suonava l'Allarmi! Altrimenti...
“I prigionieri italiani che si rifiutano di collaborare o non fanno collaborare gli altri prigionieri saranno deportati in campi speciali e non rimpatrieranno che dopo molto tempo la fine della guerra ”.
E in esecuzione a questo avvertimento affisso all'Albo del' Comando Americano nei vari campi un mattino, il 9 settembre 1944, giunse l'ordine di “partenza ” per le isole Hawaii di un gruppo di ufficiali e di alcune migliaia di soldati dell'Hereford “dangerous fascist camp”. Fra gli ufficiali Padre Salsa.
Doloroso fu il distacco dai camerati che avevano sin. lì seguito la sorte comune ma la certezza era unica: nessuno, ovunque fosse stato portato, comunque fosse stato trattato, avrebbe mollato mai. (E mai mollarono.- I diciotto mesi di segregazione cellulare fatti scontare nei campi delle Hawai al Tenente Della Casa, al Tenente Martinuzzi, al Tenente Martucci, al C. M. Gatti e al Tenente Stupenengo nonché a un numero infinito dì soldati, non fecero che confermare gli altri nel proposito e nella linea di condotta stabilita a.Hereford: Anti-kaman sempre!).
Padre Salsa. disse l’ultima messa e con gli altri cantò la preghiera dei soldati, poi raggiunse la colonna che si avviava lenta per la pista sabbiosa.
A un certo punto il Padre Salsa si voltò verso il campo, da cui giungeva il canto di. saluto dei rimasti, e fece il segno della benedizione.
Fu visto un M. P. di scorta dargli uno spintone: Avanti, Kome on, on let’s go!
La -colonna che piano piano si allontanava verso il tramonto purpureo cantava.
Cantava e cantò sempre, anche alle Hawai, anche nelle dure ore di fame e di stenti, quellalegione di fratelli.
Nelle baracche e nei campi ci fu molto silenzio quella sera.
Un'aria di tristezza grande aleggiava su di tutti.
C'era la luna piena e l'aria era fredda.
A Gargnano il Duce vegliava.
CAPITOLO 8
Gli M.P. guardavano il lento andirivieni dei prigionieri per le strade del campo e ogni tanto, poiché era il crepuscolo, facevano correre i fasci luminosi dei riflettori sui tetti delle baracche e sulla campagna silenziosa.
Il cielo non' era buio n a grigio e pareva fosse fatto di una immensa coltre di velluto tali e tanti erano i riflessi e le sfumature che causava una leggera striscia d'argento rimasta all'orizzonte.
Fra gli M.P. alla torretta Nord, Joe e Dik parlavano del. loro paese.
Diceva Dik: Si sta bene nel Nevada. E Joe: Certo. Qui dì bello c’è' solo il tramonto.
E Dik dopo un' attimo Il tramonto. Anche nel Nevada c'è il tramonto.
E Joe ancora dopo: In tutti i paesi della, terra tramonta il sole. Ma qui tramonta in un altro modo ecco.
Forse Dik.stava per ribattere che il tramonto del sole è bello anche nel Navada, ma uno squillo di tromba proveniente dal campo sottostante troncò il corso dei suoi pensieri. Poi, Joe in quell'istante aveva lanciato la luce del' riflettore sul campo.
Anche dalle torrette degli altri campi la luce corse rapidamente sulle strade e sulle baracche per perdersi nella campagna.
I prigionieri avevano smesso il loro andirivieni e tutti andavano pian piano adunandosi lungo il reticolato Nord. E anche negli altri campi avveniva la medesima cosa e in breve i quattro campi furono allineati in un unico schieramento frontale.
- Capisco, disse Dik. Aspettano gli altri.
Era venuta chissà come, nel campo, quella notizia. Forse era sfuggita al Capitano Pierpont all'Ospedale.. O l'avevano imparata dalle guardie delle prigioni, quelli che portavano il mangiare ai, “segregati ”.
- Arrivano. Arrivano dall'Italia.
Tutti in, agitazione nei campi, per quella notizia. Ed erano corsi rapidamente degli ordini dal campo 4 agli altri campi.
Si dicevano tante cose nei box e per il campo. Cose come queste:
- Forse ci sarà qualcuno della mia città
- Già, tu sei di Treviso...
- Già, di Treviso. . . E non' ho mai avuto una lettera... Mai.... Mai da nessuno.
- Quindicimila ne ha uccisi, il bombarda mento. Sono tanti!
E a Roma battevano le mani...
E Croce? Non hai letto il “Chicago”? Dice che pregava per la sconfitta...
- Maiale anche lui... Anche lui come Sforza che vuole fare le legioni volontarie per liberare la Patria.
Mah! Sapremo qualcosa finalmente.
SI, qualcosa di più di quel tamburino che batte l'allarmi.
Poi avevano cominciato a prepararsi. Non era molto facile, non commuoversi nel rimettere, per l'occasione, quel che era avanzato, delle antiche divise. Togliersi una volta tanto di dosso quei maledetti indumenti marcati di P.W. gialli e neri e rossi. Marcati. Marcati come bestie. PW. PW.
PW. dappertutto. PW. e numeri. 17192 PW. uno. 17193 PW. l'altro e cosi via, tutti marcati e numerati. E nello schedario del Federal Bureau of Investigation le fotografie numerate e le impronte digitali. Ma certo era una consolazione pensare che gli M. P. erano ugualmente schedati e registrati.
Li reclutavano a Sing Sing, gli M.P. Quando fu il crepuscolo tutti erano pronti.
- Arrivano alle otto. Suonerà l'adunata. E la tromba, puntuale, suonava l'adunata.
Adunata di tutti, secondo gli ordini, fronte al reticolato Nord: di là sarebbero arrivati.
Qualcuno salito su una baracca, cercava' di scrutare in direzione della pista sabbiosa, verso la ferrovia, per vedere i fari delle macchine.
Nei campi cantavano già. Cantavano . tutte le canzoni. Quelle vecchie sahariane stinte e anche insanguinate e quei canti: tutta la nostra. giovinezza!
Il cielo non era più così grigio e quella striscia d'argento all'orizzonte era divenuta violetta, quando le prime luci ruppero il buio della piana.
- Arrivano! E all'annuncio, subito i canti si tacquero e gli occhi ansiosi presero, a seguire quella lunga teoria di luci che sempre più si avvicinavano.
Quando le macchine furono forme gli M. P., che attendevano in prossimità del “Blok-house” d'entrata, si lanciarono per -fare scendete i prigionieri.
- Konie,on! Kome,on let's go!
I nuovi arrivati scendevano e si mettevano in fila. Poi un primo gruppo prese ad avanzare verso i recinti.
Tre squilli di tromba echeggiarono. Tre squilli ,l'allarmi! e i quattro campi si irrigidirono sull'attenti.
E nel silenzio divenuto fantastico una voce tremante di commozione lanciò il saluto.
Il campo di Hereford vi saluta! W la Repubblica!
Per qualche tempo ancora vi fu silenzio. E nel silenzio s'udiva il passo cadenzato del gruppo che si avvicinava. Poi una voce che rivelava nel cuore lo stesso tremito di tutti disse: - Viva l'Italia, fratelli!
Il cuore batteva tanto forte che pareva dovesse rompere dentro. E dalla colonna che si andava sempre più ingrossando, cominciarono a cantare.
E per ascoltare quel canto si fece silenzio.
Era un canto nuovo e pieno di passione. Era il canto della “ X MAS ”.
Con il cuore sospeso, si ascoltavano quelle parole. Gli occhi, già umidi per quel commovimento intimo, determinato da tanta passione e da tanti ricordi, non seppero trattenere le lacrime quando quel canto disse: “ ... Nostri fratelli prigionieri o morti noi vi facciamo questo giuramento noi vi giuriamo che combatteremo…”
La Patria non aveva dimenticato, dunque.
E mentre il cielo si riempiva di stelle, tutti, con ì nuovi, presero a cantare: ... “Quando l'ignobile otto di settembre... ”.
I riflettori si accesero e infine gli M. P. spalancarono il cancello.
E al passo, perfetta, entrò la colonna che cantava.
E dalla testa della colonna uno corse avanti e gridò:
- Vi portiamo l'abbraccio della Patria!
E tutti corsero a braccia aperte. E mai abbraccio fu più forte e tenace.
A lungo durarono i canti, quella sera indimenticabile del settembre '44.
E fino all'alba attorno ai fratelli a chiedere, a chiedere all'infinito.
E in Patria? Dimmi in Patria... In Patria, lassù, nella Repubblica...
Avevano combattuto a Cassino, ad Anzio, Cisterna, a Caroceto, sul mare e nell'aria.
Tristi i racconti anche se sublimi le gesta. Poi gli sputi delle donne a Napoli, al campo di Aversa.
- E' vero, allora? Per una caramella...
- Non so... Non credo...
- Qui tutti i giornali l'hanno stampato... Di la verità. E' vero?
- Non credo... fino a questo punto...
E tutta la dolorosa trafila fino ai campi d'Africa. Anche', loro Chanchy, anche loro la passeggiata per Orano. E racconti di M. P. italiani, “ peggio di quelli veri”, e di finte fucilazioni...
Così, ad Aversa? E' vero che...
Così ad Aversa! Quella è l'Italia, oggi. Non ti puoi fidare, di nessuno!
- E i partigiani?
- Ne ho sentito parlare, camerata. Non ne ho mai visti, io. Partigiani? No, mai visti.
Tutto è crollato camerata!
- Come ti chiami?
--Tognoloni, decima, Barbarigo.
Io, Barocci, dell'Ariete. Sei passato per Rimini? Non c'è più niente...
Non c'è più niente...Case distrutte. Città distrutte. Amici morti o scomparsi. Che tristezza questa vita! Tornare.
Quando? Andare a vedere. Quando? La mamma, il, babbo, la sorella, la fidanzata, dove sono? Nn c'è più niente…
- E' passata la guerra, fratello.
E pare, nella notte fresca, d'udire la lontana eco del cannone che batte batte su quella povera terra squarciata e insanguinata e contesa al nemico avanzante.
E su tutti e per tutti una preghiera.
Signore Iddio, mio, salva l'Italia!
CAPITOLO 9
Correvano da più di un'ora i prigionieri di guerra. E gli M.P. con i thompson's puntati facevano molta attenzione a che nessuno rallentasse l'andatura. Al di là del reticolato si vedeva un'immensa distesa di baracche e oltre quelle campi di carri armati e camion's e cannoni e uomini, migliaia di uomini dappertutto. Era il campo di addestramento di Fort Bliss, e quei prigionieri continuavano a correre, mentre gli M.P. sorvegliavano attenti.
Il Capo Capriotti era in testa alla fila., Come gli altri aveva tanta sete ed era sfinito Le ferite avute ad Alessandria quando era andato a silurare la “Valiant”, gli dolevano anche per le botte ricevute il giorno prima.
“Cooperazione forzata”. Sfinirli con la corsa o con la sete: un sistema come un altro per fiaccare, gli animali. Correre. Correre, senza sosta, per ore e ore. Chi cadeva veniva coperto di botte e portato -via, all'Ospedale.
“Cooperazione forzata”. Tanta sete e tanta stanchezza. E gli M.P. che si davano il cambio ogni mezz'ora, e guai a rallentare l'andatura.
Passarono le ore e venne sera. E pochi erano rimasti in piedi. Capo Capriotti continuava a tirare la corsa: le labbra sanguinavano ma il cuore non voleva cedere.
C'era. la luna quando gli M.P. dissero di smettere la corsa. Nove ore aveva durata la corsa. Nove, ore!
E per le baracche piene di lamenti, gli M.P. passarono a chiedere la' collaborazione.
Gli uomini non' avevano più respiro. Ma per tutti Capo Capriotti rispose:
- Neanche se ci ammazzate, cani!
L’M.P. gli diede un colpo sulla testa con la mazza. “Cooperazione forzata”. Si stancarono gli M.P. e si stancò il comando del campo. - Very soldiers'.
Già da tredici giorni quei mille uomini erano a pane e acqua. Lungo il recinto esterno correva la strada che portava a El Paso e numerose erano le macchine civili che si fermavano. Era un bello spettacolo quello di quei mille uomini distesi per terra immobili. Ed era bello sentirli cantare..
Cantavano ogni volta che entravano gli M.P. a portare l'acqua e il pane.
C'era il tenente Strohn che si era assunto l’incarico di fare “cooperare” quei fascisti a tutti i costi e c'erano gli M.P. armati di mazza che aspettavano fuori del recinto.
Capo Capriotti aveva visto quello spiegamento dì forze e osservava. Vicino a lui il caporale Leonardi, un ragazzone alto e grosso e buon pugilatore. Il tenente Strohn finalmente apre il cancello del recinto. Contemporaneamente gli M. P. si schierano su una unica linea e imbracciano i thompson's. Il tenente Strohn, abbondantemente armato, entra nel campo e si avvicina, a uno di quegli uomini stesi a terra.
- Alzati, cane! - gli dice.
L'uomo steso a terra lo guarda e non si muove e allora il tenente Strohn lo colpisce violentemente sui fianchi con la mazza.
Gli altri uomini si alzano a quella provocazione e cominciano a muovere verso l'americano.
Ma primo fra tutti il caporale Leonardi. Arriva di . corsa e si pianta davanti all'americano.
Perchè l'hai picchiato?, chiede. - Perchè, vigliacco ?
Il tenente Strohn alza la mano per colpire l'uomo, il “ gringo ”, che osa parlargli in quel modo, ma l'uomo fa un passo indietro e, lo colpisce con un violento destro in pieno viso, L'americano cade a terra e rimane immobile.
Dal cancello entrano. di corsa i soliti indiani comanchi vestiti da M.P. e si buttano addosso caporale Leonardi. Ma il caporale Leonardi ne atterra parecchi.
Poi l'hanno sopraffatto e l'hanno portato in una stanza del comando americano.
E' solo e di fronte a lui sono otto americani armati di mazze di caucciù. Gli dicono di chiedere scusa. Ma Leonardi non è un uomo da piegarsi e allora gli sono addosso. !Quante !botte, quante botte! (Non camminavi più il giorno dopo caporale Leonardi e da quel giorno hai cominciato a declinare o la memoria ti abbandonava e dopo un mese dal rientro in Patria sei morto, Morto pazzo per le, botte di allora, signori del Governo!).
A Marana nell'Arizona, c'era un altro campo non collaboratori. E c'era anche un ospedale dove ricoveravano gli ammalati di T.B.C che non avevano aderito alla collaborazione. Se avessero aderito li avrebbero mandati nel Colorado o a Santa Fè dove l'aria è buona non Ii nell'Arizona dove il clima era soffocante quasi quanto quello della depressione di El Cattara.
In uno' dei ward's dell'ospedale c'era un tenente che stava per morire. Già da molto tempo lo stavano torturando perchè collaborasse. Ogni sorta di cose gli dicevano. Che la famiglia sua ora era sotto gli americani e che so lui rimaneva in quell'atteggiamento ostinato l'avrebbe molto danneggiata. Ma il tenente non ne voleva sapere. Diceva:, “Non mi importa. Io non mi vendo. Resto quel che sono ”.
Ora era l'agonia. Al suo capezzale c'era padre Daniele Dal Sasso del V Bersaglieri e il
maresciallo Moriondo, il capo campo.
Ormai aveva avuti i santissimi sacramenti. Sapeva che stava per andarsene e mormorava dolci parole per i suoi di casa. Padre Daniele lo confortava e gli parlava di Dio e della salvezza eterna.
Era sera tarda e l'aria era ancor più calda e opprimente. L'agonia durava frammista a momenti di lucidità piena.
Nel ward entra anche il cappellano americano, don Barbato, con un foglio in mano: “L'I Promise”: la scheda di collaborazione, e si avvicina al moribondo e gli dice: Salvati... Salvati e salva i tuoi... firma... Padre Daniele Dal Sasso insorge inorridito.
Non bestemmiare... non bestemmiare... ”, ma il prete italo-americano non se ne dà per inteso e insiste, insiste con le parole più atroci e tortura gli ultimi attimi del moribondo con un, insistente “Collabora... collabora... collabora”.
La morte libera finalmente il povero tenente.
L'ha sepolto Padre Dal Sasso nel piccolo cimitero,dell'Ospeda1e di Marana. E ai suoi compatrioti hanno proibito di accompagnarlo all'ultima dimora. Povero camerata nostro, le tue ultime parole sono state: “Non mi torturare... Non mi torturare, resto fascista... ”.
Il sole era alto e il caldo opprimente. Il campo era deserto come il paesaggio attorno che era rotto solo da qualche cactus gigante. All'ingresso del campo, proprio sopra il capo della guardia, c'era il nome: Florence POW Camp. E anche a Florence, in piena Arizona, a qualche chilometro, da Maràna, prigionieri non collaboratori. Ma anche a Florence c'era l'ordine dell' VIII Servizio del War Department: Cooperazione forzata. Certo che ad ogni Comandante di Campo era lasciato quel tanto di margine perchè potesse mettere meglio in luce le sue qualità e le sue iniziative. Il comandante del campo era del New Messico e da suo padre che era un indiano della Peoria aveva imparato molte “ finezze ”. Sorrideva il comandante del campo di Florence a quel suo “
sistema” per indurre alla, cooperazione quei maledetti fascisti... A qualche chilometro dal campo i prigionieri italiani, dopo una corsa estenuante nella sabbia,
erano stati inquadrati dagli M., P. e attorno al blocco era stata tracciata una linea... Gli M. P., il thompson puntato... il sole alto... sete... e guaì a sedersi... guai a passare quella linea... A qualche metro dalla linea un camion aveva scaricato un bidone d'acqua. .Passavano le ore e gli M. P. ridevano di gusto a vedere quei maledetti italiani contorcersi e sforzarsi di non cadere... (Qualcuno era svenuto per un improvviso colpo dì sole e l'avevano portato al campo dove appena rinvenuto gli avevano sottoposto la scheda di collaborazione).
Fu verso il tardo pomeriggio che uno di quei prigionieri fece un passo avanti, verso la linea... Forse quel prigioniero non voleva passare la linea.
Non si è mai potuto sapere cosa volesse perché un colpo di thompson lo stese a terra.
Bravo quell'M. P.: con un colpo solo l'aveva azzeccato!
L'indiano della Peoria che, comandava il campo invitò l'M. P. a cena, quella sera.
E quella sera stessa, nel cimiterino contornato di cactus, fu scavata una fossa. Misero una croce, e Padre Daniele recitò le preghiere.
Là in Arizona c’era una Farm. Una donna era la padrona. Una donna giovane che veniva spesso al campo di Florence a bordo di una lussuosissima Ford. Veniva a prendere dei prigionieri ogni giorno per i lavori nella piantagione di cotone. Era obbligatorio quel lavoro--- “Convenzioni di Ginevra ”: i soldati sono obbligati in lavori che non siano di produzione bellica. Obbligati a lavori da schiavo come quello della raccolta del cotone! Ma la giovane donna amava avere attorno a se quei bei ragazzi robusti non solo per il lavoro nelle piantagioni e sono molti quelli che potrebbero raccontare qualcosa di una certa farm... Per molto meno di una caramella... quella giovin signora.
Per molto meno. Anche con qualche negro, quella signora che veniva al campo di Florence in una lussuosa Ford e con il frustino indicava il prigioniero che voleva quel giorno.. Al tempo di Morgan, nelle Barbados, facevano nello stesso modo le figlie dei nobili inglesi delle colonie. Qualche schiavo negro,. qualche schiavo bianco, tanto per passare il tempo in attesa del matrimonio...
Intanto ora venuto l'inverno e la neve aveva preso a cadere abbondantemente. A Hereford
giungevano prigionieri da tutti i campi periferici per svernare.
E in quei giorni arrivò una, cartolina dal campo 25 nel l'India. La data era 8 settembre 1944 e il testo diceva: Anche, per noi questo è un giorno di lutto.
E in una notte di tormenta suonò l'allarme. Ben presto i campi furono pieni di M. P. e tutti i prigionieri nella neve. Perquisizione. Perquisizione e verifica se tutti gli indumenti indossati portavano la prescritta stampigliatura, di P. W.
E con la neve che cadeva gli M. P. imbacuccati si divertirono un mondo a far e spogliare quelle “ bestie italiane ”. “ Bestie italiane ”, dicevano.
Ma ad Anversa c'era la ritirata e i prigionieri lo sapevano e speravano. Speravano tanto, e sopportavano.
La neve cadde per molti giorni e quando fu gennaio i reticolati vennero tagliati, da tre ufficiali.
Arrivarono a Los Angeles quei tre ufficiali.
CAPITOLO 10
La neve se ne era quasi completamente andata. Rimaneva qualche chiazza bianca al riparo delle dune o nei fossi, ma era ormai questione di qualche giorno e poi tutto il paesaggio sarebbe stato pulito e sgombro. Anche il “ tornado ” aveva principiato a mulinare sull'altipiano del Texas. Gli uomini erano costretti nelle baracche per quel gran vento di sud ovest e continuavano nei loro passatempi invernali. C'era chi aveva scritto addirittura dei romanzi. Un libro era divenuto famoso infatti. Era il libro di Giuseppe Berto: “I1 cielo è rosso”. Su quel libro l'autore contava molto. Una
volta tornato in Patria si sarebbe presentato a uno dei grandi editori e avrebbe detto: Sono stato dieci anni a servire il mio paese in Africa. Ho perso tutto. Pubblicatemi questo libro e farete fortuna ”. C'era anche chi aveva continuato solamente a sognare sul passato e che diceva che il mondo si era fermato. Tutto procedeva tranquillamente dunque: pareva che gli americani avessero finalmente capito che “li nessuno mollava” e non avevano più insistito, con la storia della collaborazione. Nei campi si parlava persino di un prossimo ritorno. Prossimo: appena finita la guerra. Lo si capiva che la guerra era. Alla fine e che ormai non c'era più speranza di vittoria. V 1, V2, cose belle, cose grandi che non avrebbero potuto modificare il corso degli eventi.
Era dunque tornata una certa “diffidente” serenità nei rapporti con il detentore e veramente inaspettato giunse il provvedimento che tagliava quasi completamente i viveri. Cosi, dalla sera alla mattina, a 500,600 calorie complessive, tutti, vecchi e giovani. Il War Departement era deciso a farla finita!
Falliti i tentativi con la “starvation” morale provava con la “starvation” fisica. Forse colpiti nel fisico quegli ostinati avrebbero ceduto e sarebbero venuti a patti. Le normali attività dei campi cessarono quasi di colpo. Niente più sport, niente più letture. In poco più di un mese tutti erano stati ridotti al limito delle forze.
Non valsero. le proteste in nome delle Convenzioni di Ginevra, firmate dal prof. Gabitto e sottoscritte dal generale Scattaglia. Ginevra? Non c'è Ginevra per vinti... (Intanto la campagna di stampa contro, i prigionieri assumeva un tono quanto mai cattivo reclamando provvedimenti draconiani e immediati).
La, percentuale della popolazione dei campi era composta di giovani dai 16 ai 35 anni, e ancora una volta il prof. Gabitto fece presente le gravi conseguenze che stavano derivando per la mancanza di nutrimento. Comincio il C. M. Lucotti con il T.B.C....Intanto la guerra precipitava. Roosvelt era morto e il Reno era stato passato. E un giorno si sparse la dura, tragica notizia.
Chi non pianse quel giorno nel campo?
-E' morto! L'hanno assassinato!
In quei giorni gli americani si dimostrarono, per la prima volta dei soldati. Non mancò ufficiale americano che, davanti al nostro dolore, non si sia sentito in dovere di deprecare l’orrenda fine e di fare “a dei veri soldati, le più sentite condoglianze d'un soldato ”.
Il 30 aprile il campo celebrò un rito. Non c'era prete per poter e dire una messa i Ma davanti a un catafalco coperto con i colori della Patria, fu cantata la. preghiera del Legionario e un Ave Maria fu mormorata per tutti dal capitano Secolo del 31 Guastatori. E da quel giorno il campo fu in lutto.
Il New York Times dedicò agli italiani questa testata su sei colonne: “ Gli italiani hanno sputato su Mussolini, il mondo dove sputare sugli italiani”. Questo per non dire parole dei commenti. Del Chicago Herald Tribune e del San Francisco Examiner,
Si distinsero come sempre il “Mondo ” e la “ Voce del popolo ”: settimanali in lingua italiana che riportarono spesso dei pezzi di quel tale conte Sforza delle Brigate Volontarie per liberare il paese. Ora il paese era libero!
Era libero il paese, di subire l'onta di Esperia e Montefiascone.
Passò qualche tempo ancora e, dato che l’Italia si considerava in istato di guerra con il Giappone, il War Departinent, che non aveva ceduto di una linea nei provvedimenti affamatori, chiese agli Italiani di cooperare contro il Giappone.
Era evidente che il War Department sprecava il suo tempo. Sprecava il suo tempo anche se i prigionieri non erano più in grado di stare in piedi per la grande debolezza. Non poteva spaventare lo spettro della T.B.C. al punto di cedere e venire meno all'impegno d'onore assunto reciprocamente di resistere in quella linea di condotta fino alla fine della prigionia. E le vessazioni in grande stile ripresero dunque nel giugno del '45.
Cominciarono con la storia del saluto romano.
“E' proibito il saluto fascista. I prigionieri saluteranno come si usa nell'Esercito Americano”. Fu fatto osservare che il Regolamento italiano prescriveva che a capo scoperto si doveva salutare romanamente e che... nessuna modifica era stata portata a conoscenza in nome della Repubblica. Quale repubblica,? Come non c'è la Repubblica in Italia No? E' finita! Ore c'è di nuovo il Regno'?
Ah, si! Bene allora, ci dispiace, ma noi siamo della Repubblica e...
Diventarono lividi di rabbia gli americani! Lividi fino al punto di arrendersi dopo il fatto ”Plaisant ”.Il fatto “Plaisant”.
Il tenente Plaisant, un sardo, passeggiava tranquillamente per le strade del campo e seguiva il corso dei suoi pensieri, pieni della speranza grande di un sollecito ritorno.
Entra la macchina del Colonnello Calworth e si ferma a pochi passi dal tenente che senza guadare passa oltre.
Il colonnello scende. Ehi! Ehi, grida.
Il prigioniero Plaisant si ferma: lo esamina bene: vede che è il colonnello, fa un passo indietro e alza il braccio in un perfetto saluto romano.
Numi dei cielo! In quattro e quattro otto in carcere, a pane e acqua, il prigioniero Plaisant.
Quindici giorni. Al termine dei quindici giorni, il prigioniero, Plaisant, viene riportato davanti al colonnello.
Il prigioniero entra: guarda in viso il colonnello, batte i tacchi e alza il braccio nel saluto.
Numi del cielo. In carcere: quindici giorni pane e acqua.
Al termine dei quindici giorni...
Il colonnello si stancò e dopo quarantacinque giorni rimandò il prigioniero Plaisant nel campo.
Chi la dura la vince. O meglio “Vince sempre chi più crede, chi più a lungo sa patir... ”.
Il mesi passavano lenti. Cooperazione forzata. Cooperazione, collaborazione, ordini del Governo del Re. Lettere dell'Ambasciatore Tarchiani presso gli USA:, niente da fare, i prigionieri non si muovevano d'un palmo. Che doveva fare il buon Calworth se non ripigliare i sistemi dell'anno precedente?, E di nuovo i sistemi di Fort Bliss, di Marana, di Florence Ancora soprusi, bastonature: segregazione.
Nei campi i prigionieri, erano già arrivati a mangiare le cavallette e la paglia e all'ospedale non ricoveravano più nessuno, 'Crepate cani italiani!
Il cimiterino di Hereford cominciava a contare parecchie croci. Piccole croci bianche a un paio di chilometri dal campo: per l'Italia!
E a Santa Fè, al tubercolosario erano, stati avviati parecchi dei soldati costretti ai lavori nelle fonderie. (Alle fonderie di Dallahrt, senza vesti di protezione e alla fine 500 calorie a base di soia,signori del Governo!). E nel campo 6 da quaranta giorni, all’aperto, trecento sottufficiali vivevano a pane e acqua e non mollavano. E nel campo ufficiali era la medesima cosa: Boia chi molla!
E a tutto questo le perquisizioni a notte piena, le manganellate a tradimento come capitò al tenente Busia che stava seduto a pensare alla sua mamma proprio sulla porta della Baracca Chiesa.
Libera, democratica America i che ha fatti scrivere questa lettera a un combattente della sua armata navale. Lettera pubblicata nella rivista Life il 5 novembre 1945. Scrive il guardiamarina John Henry Holt da San Francisco: “Signori, ho perduto il timore della morte a Guadalcanal. Ho perduto il mio migliore amico a Okinawa. Ho perduto una gamba a Iwogima. E ha perduto la fede nella democrazia americana dopo. avere letto il vostro articolo sui prigionieri di guerra Perché ho combattuto? ”.
CAPITOLO 11
Le baracche erano deserte e tutto il campo aveva l'aria dimessa e abbandonata.. Qualche porta era. rimasta aperta, e continuava a sbattere per il Vento che soffiava con uguale, intensità da molti giorni. C'era ancora della neve qua e là per il campo e le strade erano fangose.
- I prigionieri di tutti i campi erano, allineati in prossimità dei cancelli.
Erano vestiti con cura; una cura ricercata per coprire i cenci rimasti dalla grande bufera e gelosamente, custoditi per il ritorno! Il ritorno!
Era il primo febbraio 1946 e verso le 10 i primi ufficiali del campo 4 varcarono l'uscita per avviarsi fra due ali di armatissimi M.P. Certo che a vedere quello spiegamento di forze non si sarebbe proprio, detto che ora giunto il momento del rimpatrio.
Quasi tutti nel varcare il cancello si voltarono a sputare per terra come dire – Toh! E Dio ti maledica, terra americana!
Una volta filtrati fuori dall'ultimo recinto cominciò la perquisizione. E sono gli M.P., gli incaricati, come, al solito.
Palpavano tutto il corpo, attentamente. Vuotavano le tasche e si prendevano qualche piccola cosa per “souvenir”.
Ma le operazioni andavano abbastanza sollecitamente e i prigionieri sopportavano di buon animo questa perquisizione: ora l'ultima se Dio vuole.
La colonna degli ufficiali aveva quasi terminato e stava già inquadrata per sei all'altezza della “nursey”, quando si udì un concitato gridare.
Tutti si voltarono a guardare e quelli che erano bersaglieri si lanciarono di corsa verso gli M.P.
E un bello spettacolo ebbe inizio. Il Tenente Enzo Salerno ci teneva naturalmente moltissimo al proprio fez rosso e non ne voleva sapere di farne un “souvenir ” al M.P. che lo aveva perquisito. L'M.P. era ostinato ma il Tenente Salerno, da buon bersagliere, Io era molto di Più.
L’M.P. allunga la mano per prendersi quel fez rosso con il fiocco azzurro.
E il Tenente Salerno allunga un diretto al mento dell’M.P. che crolla a terra.
Gli altri M.P. che avevano seguito la rapida scena gridarono: “,Héllo boys ” e si lanciarono verso quel prigioniero. Quel prigioniero uno due, uno due, un pugno al ventre, un pugno, al mento li distese per terra.
Ma altri M. P. si buttarono a mani alzate contro l'ufficiale italiano che ad alta voce grida: “Allarmi i bersaglieri, tremendi e fieri”.
Gli ufficiali dei bersaglieri escono dalla colonna di corsa e si buttano nella mischia.
Quante ne buscarono gli M.P.. quell'ultimo giorno! Infine ci si misero con i thompson e in una ventina riuscirono a spaccare il capo al Tenente Salerno.
Bravo Salerno! Non si toccano i bersaglieri! Quello fu l'ultimo Combattimento fra le truppe italiane e americane sul territorio degli Stati Uniti.
Per la pista fangosa la colonna muoveva verso la ferrovia.
Ad un certo punto il Colonnello Feroldi ordinò l’alt fronte a destra. Nella. distesa squallida, lontano, si vedeva la M in muratura costruita all’Ingresso del cimitero. Là, i nostri cari compagni caduti in prigionia di guerra. - Attenti!
Gli M.P. guardavano senza comprendere quel muto sostare della colonna.
Nel silenzio vennero scanditi i nomi dei caduti, a cui faceva eco il. presente dei sopravvissuti.
Tutti i nomi, uno per uno, e a voce forte: Presente!
Era in noi la Patria che li salutava, per l'ultima volta.
La colonna riprese la sua marcia allontanandosi sempre più dal campo di Hereford.
Nessuno mai si voltò indietro a guardare.
Il mare è tranquillo. La nave ha aumentato di qualche nodo la sua velocità. Lungo i ponti e un andirivieni sempre più paziente di, uomini, e gli sguardi, sono rivolti insistentemente in avanti verso la prua della nave che si alza e si abbassa lievemente sollevando due leggeri baffi di spuma bianca. I discorsi sussurati hanno tutti lo stesso tema: il ritorno.
All'alba. All'alba saremo a Napoli dice qualcuno con la voce tremante.
- Ancora sei ore, All'alba? Ma arriveremo, all'alba? Incalza un'altra voce.
Perchè all'alba, proprio,?
E' più bello arrivare, all'alba. Basta arrivare.
Certo. Ma arrivare all'alba, è un'altra cosa ecco. Poi ancora il silenzio rotto Solo dal frusciare delle acque sui fianchi della nave. E il pensiero veloce. Si vedono delle luci. E’ la Patria là.
Non c'è gioia in nessuno, a bordo. E' un triste ritorno per dei soldati, questo.
Un ufficiale americano, ieri sera ha chiesto a un prigioniero: siete, felice, signore?
La risposta è stata semplice; semplice come il dolore che hanno nel cuore tutti quei soldati a bordo.
Non abbiamo la Vittoria con noi, signore. Se noi avessimo la Vittoria, noi saremo felici di tornare.
E l'ufficiale americano ha teso la mano e ha detto: la guerra è finita, signore. Voi avete fatto il vostro dovere da bravi soldati... Auguri... Good by sir!
E il prigioniero lo ha guardato negli occhi, poi sorridendo tristemente ha ripetuto:,
-Ja, sir! War is finish!
La guerra é finita e là si vedono delle luci.
Tanti anni prima, in un maggio radioso, quanti sono partiti con la speranza in cuore, salutati da tanti sorrisi! Là é la, Patria.
Non. c'è gioia nel cuore. Tutti sono muti e tristi .
Qualcuno ha già le lacrime agli occhi perchè pensa che attraccheranno forse al vecchio Molo Pisacane. Molo Pisacane. C'era la mamma con la ragazza, giù nella banchina a salutare quando la nave si è staccata dalla terra, lentamente. E c’era tutta que1la, gente che agitava i fazzoletti e gridava “Tornate presto! Tornate presto con la vittoria!”. Quanti anni sono passati da quel maggio lontano.
Certo che ben altro era il ritorno sognato nelle soste, e nelle tregue della lunga guerra. I fiori e le speranze e le parole d'addio e la; sfilata per via Toledo, il giorno, della partenza. Ora il ritorno era triste,, Non c'erano bandiere a bordo. C'era solo un grande lutto.
Guardavano le luci della costa e quella del faro che si accendeva e si spegneva e quel bagliore cupo e lontano che doveva essere il Vesuvio.
Ecco il grande atteso giorno! Che tristezza!
Sembra di essere a un funerale... Nessuno: parla..
Non ci, sarà nessuno, ad attenderci all'arrivo.- Chi vuoi che venga? Siamo dei vinti, noi! I vinti capisci? Gli unici vinti.
A poco poco l'orizzonte si faceva chiaro e il mare appariva grigiastro e la nave andava più lentamente. Non si vedevano navi o imbarcazioni di sorta.
Alle murate tutti gli uomini, pronti.
Ora nessuno parlava. Qualche gesto ogni tanto per indicare un punto lontano. Cera molta nebbia e non si vedeva la costa, ancora.
Quasi tutti avevano indossato le loro divise. Si era detto: “ Non dobbiamo parere degli straccioni. 'Noi siamo dei soldati... ”.
A un certo momento, magicamente quasi la nebbia sì dissolse. E tutti furono in piedi.
Napoli era li, vicina.
Napoli. Così non l'avevano mai vista. Il cimitero di navi. E quelle navi da guerra e quelle bandiere a strisce: la guerra perduta!
Gli occhi erano pieni di lacrime.
Ma quando la nave fu più vicina a terra, gli uomini, tutti, s'irrigidirono sull'attenti e alzarono il braccio a salutare la Patria.
I volti erano rigati di lacrime e il cuore era gonfio di tanto amore e di tanta passione per quella terra ferita.
C'era qualche soldato italiano sul molo. Tenevano le mani ficcate in tasca. Tutti a bordo aspettavano che quei soldati facessero un cenno di saluto. Anche altri soldati e borghesi arrivavano sotto il bordo della nave e non uno faceva un cenno di saluto.
Siamo degli stranieri, noi - disse uno degli ufficiali che si trovava a prua.
- Forse hanno saputo che siamo “ fascisti ”', disse un altro.
Così in silenzio, senza espansioni nè da una parte nè dall'altra la nave attraccò a quell'avanzo di molo.
Finalmente uno di quei soldati laggiù grido qualcosa.
Gridò - Butta una sigaretta, paisà!
Nel frattempo era arrivato un camion militare e ne erano scesi d gli uomini vestiti di una divisa verde buffissima.
E’ la banda, disse qualcuno. Hanno gli strumenti.
E la banda si mise a suonare la “ Canzone del Piave ”.
Si sono sbagliati. Si sono sbagliati.. Credono che siamo quelli di Vittorio Veneto. Si sono sbagliati, proprio.,La passerella era stata calata e da una 1100 era disceso un generale seguito da alcuni ufficiali in divisa nemica Era la Commissione Ufficiale incaricata del saluto.
Sale a bordo, il generale. Stringe la mano al nostro generale e dice: “ Bene. arrivati in Patria ” Poi fa qualche passo verso degli ufficiali e si ferma di fronte a uno di questi e tesa la mano ripete: “Ben tornati in Patria ”.
Ma l'ufficiale non gli dà la mano; se la mette in saccoccia.
Quale Patria, generale? Quella che voi rappresentate non è quella per cui noi abbiamo
combattuto e sofferto. Quale Patria? La nostra ha piantato le bandiere in Egitto e ha ammainato ad Enfidavìlle. La vostra ha rinnegato tutto questo.
Patria, generale? Poi in fila indiana, giù per la passerella cominciarono a scendere.
Guardando la gente con aria ostile e la gente si scosta per lasciarli passare. Ma c’è una donna che si fa largo tra la folla e si avvicina a un prigioniero. Veste di nero e ha un mazzo di rose fra le braccia.
---Tieni, dice. Tieni. La Patria vi saluta.
Il prigioniero stringe i fiori fra le braccia e vi nasconde il viso rigato di lacrime.
A uno a uno i prigionieri stringono la mano della donna in lutto e gli ultimi due ufficiali, la prendono sotto braccia e la trascinano con loro.'
E' la moglie di una Medaglia d'Oro.
Dice il tenente che, non ha voluto stringere la mano del generale:
Lei, lei ci ha portato il saluto della “nostra” Patria.
Ci sono dei camion che aspettano. I prigionieri vi salgono. Le macchine si muovono e gli uomini prendono a cantare le loro vecchie. canzoni di guerra.
Questa storia l'ho raccontata tante volte. E ogni volta che la racconto mi commuovo. Forse sono divenuto troppo sentimentale nei lunghi anni persi solo, a pensare al mio ritorno.
Forse è per questo che ogni volta che racconto questa che è la Storia del mio ritorno mi commuovo e dico super giù le medesime parole e le medesime, frasi. Non mi pare dì avere mai cambiato modo di raccontarla né di avere usato parole diverse. Ormai lo so perfettamente. Lo ripeto sempre ugualmente e sempre. usando i toni di, voce e le sospensioni della prima volta che mi capitò di raccontarla a dei miei vecchi compagni di guerra incontrati per caso dopo anni e anni, in una vecchia e rinomata osteria di una città di pianura.
Cèrto che,il mio ritorno non è andato per nulla come avevo sognato e immaginato che andasse. E certo che nei lunghi anni della mia lontananza, ho, mutato tante e tante volte l'immagine del mio ritorno. Ricordo che nei primi tempi, quando la guerra era appena principiata e correvo liberamente per il gran deserto, amavo vedermi in una bella sfilata di truppe vittoriose con gli stendardi sbrindellati e la folla plaudente al nostro passaggio. Poi con l'andar della guerra e con il mutare degli stati d’animo anche i miei sogni e le mie immagini mutarono. Sempre più tristi i sogni e
sempre meno confortanti le immagini. Forse data da quei giorni la mia passione per Dostojewschi.
Gli ultimi miei sogni erano sconfortanti ma in essi rimaneva sempre un barlume di speranza che il mio. ritorno coincidesse con, la Pace e che tutto ciò che di brutto i giornali avevano raccontato non fosse vero .Speravo proprio che tutto fosse un sogno, un brutto Sogno, quello che venivano raccontando i giornalisti dell’A.P. e dell’U.P. sulla nostra Italia. Ma come ho detto questa è la storia del mio ritorno. Non devo proprio dire quali erano. tutti i pensieri che mi ossessionavano in quei
giorni e in quelle notti interminabili del mio interminabile calvario.
Anche i miei vecchi compagni di guerra hanno avuto un ritorno su Per giù simile al mio. Infatti è capitato che, molte volte mi interrompessero per dirmi " Anche a me. Proprio. Anche a me ". E io pure ho molte volte interrotto i loro racconti: per dire: " Anche a me. Proprio. Anche a me” Il mio ritorno è stato dunque, su per giù, uguale al ritorno di tanti altri. Ecco la storia, finalmente.
Quando il piccolo, Colonnello, del tribunale Militare ebbe sentenziato che ero “fascista” e fui informato con bel garbo da un tenente vestito da “marocchino” che mi avrebbero appioppato gli arresti di rigore per non aver collaborato con il Governo del Re e con gli Al1eati, tirai un sospiro di sollievo e passai a ritirare le diecimilalire che il Patrio Governo, mi anticipava sulla liquidazione.
Ero proprio libero pensavo di andare a casa mia. Dove proprio non. Sapevo. Così mi faceva piacere dirlo e ripeterlo ai miei compagni che “casa” che casa avevamo di sicuro. A casa mia, a trovare i miei. Lo dicevo anch’io ad alta voce. Ma non sapevo proprio dove andare. Di casa mia: nulla. Dei miei, nulla. Forse fu pensando a quel nulla che comprai un mitra.
Per undicimilalire a Posillipo, barattando per coprire il prezzo e avere cartucce un paio di coperte americane In caserma o meglio nell’alloggiamento ufficiali, quel mattino era tornato uno di noi che aveva cercato di telefonare ai suoi a Milano.
Ai suoi che non gli avevano mai scritto. Era tornato in caserma e si era buttato sulla sua branda. Dopo sapemmo che gli avevano massacrato tutti, lassi nel Nord.
Forse fu anche per questo che comprai il mitra. E forse fu anche per tutte quelle bandiere nemiche issate per ogni dove. E per quella rovina che da tutto traspariva. E anche per quello che la gente diceva della nostra guerra perduta e dei nostri morti. , Proprio fu per tante ragioni che comprai quel mitra. Pensavo che non ci fosse altro da fare che vendicarmi e vendicare quei miei soldati morti per il deserto. Non avevo mai sognato nè, pensato 1 che avrei potuto desiderare di Vendicarmi.
Ma le cose nel mio cuore mutavano rapidamente. Mutavano ad ogni ora. Mutavano a vedere ilsole. E mutavano man mano che si andava facendo strada la coscienza di essere comunque in Patria. Era tanto tempo che non udivamo più parlarne e credo che ognuno di noi se, ne fosse fatto un concetto tutto diverso da quello che invece si andava formando al vedere quelle facce patite di bimbi e quelle donne che mendicavano il pane.
Anche quella prima ragazza che incontrai su per quella che io continuavo a chiamare via Toledo, contribuì certamente a fare mutare propositi del mio cuore.
Era una bella ragazza. Del tipo, che ognuno di noi aveva sognato. Bella, veramente. Capelli neri.
Occhi neri. Bella. Aveva, sedici anni.
Ricordo che si avvicinò per dirmi Sei tornato. E io come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Sono tornato. Lei dopo avermi guardato: Che fine, eh?. E io era meglio non tornare. E lei; Perché.
Non ne valeva la pena tu fossi crepato. E io: Era meglio di sicuro. E lei; No. E’ bello vivere. E’ bello anche se devi stare nel marcio. Li ho visti i morti, anch’io sai. E credo che da allora, dalla prima volta che ho visto tirarne fuori uno sotto di là, da quel moccio di sassi, ho voluto più bene al sole. Poi non ne valeva la pena.
Io rimasi silenzioso a guardarla. E pensavo che di quello che andava dicendo non me ne importava nulla. Mi importava solo che era bella. Ma poi pensavo che aveva sedici anni. E allora cercavo di ricordarmi che in quanto aveva detto c’era una grande amarezza. Poi lei si muoveva. E io tornavo a pensare che era bella. Credo di non averla salutata e di essermene andato di corsa. Era bella.
Ma aveva sedici anni, signore Iddio. E quella sera andai a guardare il mare. E il mio cuore non voleva più vendicarsi.
Intanto nella giornata molti di noi si erano lanciati verso le case. A tutti i treni uno partiva. E con molti non ci siamo salutati o scambiati l’indirizzo. Importava solo di essere a casa A casa. Certo era la casa, Napoli. E io, e quelli che come me non sapevano nulla, forse non avremmo mai voluto andarcene. Andarsene poteva significare sapere. Era meglio ritardare. Quelle diecimilalire erano già andate con il mitra. Bisognava barattare qualcosa. Io barattai una stecca di americane. Poi barattai anche un portafoglio nuovo nuovo. Poi non so come improvvisamente decisi di correre a
casa. Anch’io a casa. Avevo il mitra. Forse lo avrei voluto vendere. Ma mi piaceva tenerlo. Ero solo si può dire. E un mitra fa compagnia. Io poi volevo andare a casa, E’ strano, pensando a quella che era la casa lasciata, non mi commuovevo come pensando a tante piccole cose; come alla mia divisa slavata e a quei nastrini azzurri e a tutto il resto, dalle fiamme alle spalline, era legata la mia giovinezza. Me la sarei dovuta togliere, Non c’era più una bandiera pulita per quella divisa. L’avrei
tolta. E la mia giovinezza sarebbe finita, ufficialmente.
Non ricordo quanto mi costò il viaggio da Napoli a Roma. Ricordo solo il viaggio attraverso le città distrutte e la fermata presso il campo di Aversa dove erano tenuti degli italiani: Uno di essi un ragazzo, mi gridò che era della”MAS” e che gli avevano massacrato suo padre a Mantova, i partigiani. Già fu ad Aversa che io vidi la prima bandiera rossa. Era una giornata piovigginosa e fredda, e la campagna era molto triste. Io tenevo il sacco fra le gambe e osservavo la strada umida che si apriva davanti alla nostra corsa. C’era altra gente nella macchina . Forse più di cinque persone. Dopo Aversa l’autista mi disse che aveva fatto le quattro giornate. Poi un altro disse che era un peccato che Mussolini l’avessero ammazzato. E anch’io dissi che era un peccato che lo avessero ammazzato. Certo che pensando a quello che avevano raccontato i giornalisti dell’A.P. e ricordando le fotografie pubblicate in esclusiva dal “Life”, ero contento di aver comperato il mitra. Io gli volevo molto bene a Mussolini. E dico la verità, ancora oggi, più di ieri, gli voglio bene. Poi anche un altro che stava seduto stretto stretto nel sedile posteriore, quasi affogato da un grande involto, parlò. Disse che era tornato dalla Russia. Per miracolo era tornato. E non aveva trovato nessuno a casa. Nessuno. L’ultimo bombardamento americano gli aveva ucciso i suoi. Era stato ufficiale d’artiglieria. Ora faceva la borsa nera. Portava farina bianca a Roma. Vendeva anche sigarette. Io fui l’ultimo a raccontare. E non avevo molto. Il mio ritorno durava ancora. E di casa, nulla.
Non volevo mai fermarmi nei miei racconti a un particolare dei miei sogni. A un particolare segreto.
Avevo anche io la ragazza, quando partii per la guerra. Aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi e si chiamava …Ma come si chiamasse non importa. E di lei tutti i miei silenzi, nella contemplazione di stelle e di albe indescrivibili erano pieni. E anche a lei pensavo mentre la macchina correva verso Roma.
A Roma. Lasciai i miei compagni di viaggio a Piazza Vittorio. L’ex ufficiale d’artiglieria dell’Armir si trascinava il suo grande involto e prima di perdersi nella folla si volse a salutarmi. Io entrai in un bar. C’era tanta gente. E tutta mi guardarono. Io pensavo che era strano che avessero ancora voglia di guardare un soldato dopo tutto quello che c’era stato. Forse mi guardavano per la mia divisa, che per quanto slavata e sdrucita era sempre la vecchia divisa. Dopo capii che erano
comunisti. Chiesi un gettone. Poi guardai l’e1enco telefonico. Feci il numero. Chiesi. Avevo sbagliato. Chiesi. Mai sentito nominare. Al terzo gettone il barista mi disse i numeri non corrispondevano più. Allora chiesi al 02. Un altro gettone. Feci il numero, risposero. Corsi fuori dal bar. Avevo trovato un amico. E questo amico forse sapeva ,qualcosa della mia casa. Non sapeva nulla. Nulla. Aveva visto mio padre pochi giorni prima della caduta di Roma. Era nella, RSI. E pensai anche' che forse non l’avrei mai più visto. Tanti ne aveva uccisi nel nord dicevano. Tanti e forse anche lui. E il mio amico raccontò che aveva scritto subito dopo la fine della mia casa e di
non aver avuto risposta. Io piansi. Mi sarebbe piaciuto ritrovare i miei. Tanti li avevano ritrovati. Il mio amico di disse: - tu non sai dove andare. Resta qui. Qui come a casa tua. Quella sera scrissi alla mia ragazza. Al vecchio indirizzo. Non avevo il coraggio di andare lassù a chiedere. l mio amico mi accompagnò fuori. Vidi le donne con i vincitori e tutte quelle bandiere, persino quel francese, sui palazzi della città. Era meglio non tornare. Il mio ritorno si poteva considerare concluso. Ma così non era . E’ stato lungo il mio ritorno. Giravo per Roma nella vecchia divisa di
tela. E non salutavo gli ufficiali che incontravo e che mi erano superiori in grado per quella divisa nemica che ostentavano. Il mio amico mi aveva dato dei soldi. Non molti perché anche lui non poteva. Voleva che mi distraessi. E io non facevo che pensare al mio bel battaglione e alla maledizione di essere tornato, anche se mi trovavo fra le braccia di una ragazza. Una due, tre, tante ragazze in quei giorni. Ma il chiodo fisso era sempre là verso il nord dove in qualche punto forse avevano accoppato i miei. E verso il Nord, in cerca, volevo andare ormai. E anche il pensiero
della vendetta era tornato in me. Avevo fatto bene a comperare il mitra a Posillipo.
Ma un mattino… Ero in via XX settembre. Il mio giubbone da carrista era stato lucidato a dovere e rimesso in ordine. E anche i miei stivali gialli; di cuoio grezzo erano puliti. E la bustina era stata lavata come tutto il resto della mia divisa. Ero per Via XX settembre. Non pensavo a nulla, probabilmente. So che guardavo una nuvola che correva veloce proprio nella direzione di Porta Pia. Una nuvola bianca in un cielo grigio e pesante. Era bassa bassa quella nuvola. Solo in montagna ne aveva viste di cosi basse. Chissà a cosa pensavo. Mi afferrarono per un braccio e una voce mi gridò: - Mio Dio! Ma sei tu. Sei tu!
Lo riconobbi quel signore in soprabito grigio: Era della mia città. E forse era stato con mio padre.
Infatti disse stringendomi al petto: - E tuo padre che non sapeva niente, niente. Io tacqui un attimo poi sussurrai: - come è finito ? E lui, senza dirmi una parola a fissarmi negli occhi. Poi, la cosa più bella del mio ritorno, la sua domanda. – Non l’hai visto ancora? Iddio sa perché avevo comprato quel mitra.
Quella stanza misera misera, all’ultimo piano della vecchia casa di via Piave, non la posso dimenticare. E non, posso dimenticare il soffitto basso e i muri scrostati. Era in ombra perché la bassa finestra dai vetri sudici non poteva lasciare passare internamente la luce. Là è finito il mio ritorno. Là su un letto basso, con poche coperte addosso, ho rivisto, dopo sette anni, mio padre.
Mio padre che credevo mi avessero accoppato lassù i partigiani. E non posso tralasciare di raccontare la fine del mio ritorno.
Avevo salito le interminabili scale rimurginando dentro un lungo discorso. Ma non avvenne nulla di quanto avevo pensato potesse avvenire al mio ritorno con mio padre. Nulla di quanto era venuto sognando e immaginando in tanti anni. E’ nessuna parola di quelle che avrei voluto dire. E le sue parole furono queste, durante il primo abbraccio: - Figlio mio mi hanno sputato addosso lassù!
Avevo chiesto alla ragazza che mi aveva aperto: - E’ qui il Colonnello? E la ragazza mi aveva guardato sospettosamente. – Chi siete?. – Dite… dite che un ufficiale lo vuole… Ecco dite questo… Le cose erano andate poi rapidamente. E io avevo ritrovato mio padre. E il mio ritorno era finito.
“ mi hanno sputato addosso lassù figlio mio! “.
E quella stanza fu per molto tempo la mia casa.
Smisi la divisa e riposi le spalline da ufficiale.
E cominciai a lavorare.
Il mitra non l’ho venduto.



“Ubriaco di sole è il mio cervello
E l’anima è infocata di tedio estivo
Ho fame, il mio passo è malcerto
Se mi guardo d’attorno inorridisco
Se mi guardo di dentro inorgoglisco”
(poesia del Sottotenente della GNR Tullio Giuglia, prigioniero a Coltano, in:
 Pietro Ciabattini, Coltano 1945 un campo di concentramento dimenticato, Milano 1995


(dal diario di prigionia del Sottotenente della G.N.R. Luigi PIANTATO - II Btg. 6 Rgt. " Battaglione UCCELLI" - 3 Divisione Fanteria di Marina SAN MARCO, della Repubblica Sociale Italiana)
"VENTO"
Lo chiamavano vento di libeccio, tramontana o maestrale. Io lo chiamo semplicemente vento; né m'importa di sapere di più.
So che nasce improvviso in un'ora qualsiasi del giorno e della notte, e nello stesso modo muore dopo uno o più giorni di vita.
So che nasce e......nel periodo in cui vive è per noi una lenta agonia, sia libeccio o scirocco.
E un turbinio di polvere per tutto il campo, e tu, povero prigioniero maledetto da Dio e dagli uomini, sei costretto ad errare per il campo, masticando, con le imprecazioni, la terra sollevata dal vento infame.
E quando...... quando alla fine sentì gridare al megafono che puoi entrare in tenda, sei già del colore della terra che ti ospita..... e ti getti sotto la tenda e fra te e il porco nel porcile non c'è differenza.
Ti avvolgi, ti rotoli nella terra e te ne bei quasi di tanta sozzura, e ti abbruttisci e diventi bestia...... e vivi, e non sai perché vivi...... e vorresti morire e non sai il perché..... ma poi pensi che un giorno...... si un giorno sarai di nuovo uomo e dovrai continuare la tua missione dovrai vendicare ingiurie e patimenti, ti dovrai vendicare del vento, degli uomini che del vento se ne servono per farti soffrire ancor di più..... questo vento che ti tagliava il viso laggiù in Russia o sulle Alpi o nel gangaio d'Albania o che ti riempiva di sabbia infuocata del deserto libico...... si, quel vento che a
volte era il tuo compagno e che non maledivi perché portava sempre un saluto dalla casa lontana.
Ed il vento di quella canzone che dice: "Vento, portami via con te!"
e il vento della libertà e dell'amore, della vita e della gioia, non può essere il vento del povero prigioniero, di questo povero uomo che vorrebbe cantare "Vento portami via con te!" ma non può perché la gola è arida e gli brucia.
337/5
Coltano (PI) 20 agosto 1945


COLTANO - MAGGIO 1945

BATTAGLIONI M
 (dedicata agli internati del campo di prigionia di Scandicci)
“Battaglioni, o cari battaglioni
Della morte creati per la vita
A primavera s’è chiusa la partita
Perché il nemico è stato vincitor
Ed ora vi trovate in prigionia
Perché il fratello vi fu traditor
Contro l’odio del sangue partigiano
Contro i vili invasi dla furor
Sul mondo brilla il vostro valore
Se vi arrendeste non fu per viltà
Di voi parlerà la nuova storia
Dirà che vinti foste con onor
....”
(in: Giacomo de Marzi, I canti di Salò, Genova 2005)


NON HO TRADITO
(testo del Cap. Bonola, Reg. "Folgore" della R.S.I.
 campo di concentramento di Coltano, estate 1945)
Tremar dovesse la terra sotto
Il tuo gagliardo passo d'ardito,
Tu va' sicuro con il tuo motto:
Non ho tradito!
Se l'ira cieca, se l'odio tetro,
Al tuo passare ti segna a dito,
Rispondi senza guardare indietro:
Non ho tradito!
Se l'ingiustizia, se la vendetta,
Per la tua fede t'avran colpito,
La tua parola tu l'hai già detta:
Non ho tradito!
Se nel tuo sangue tu giacerai,
Spirito invitto, corpo ferito,
Più fieramente risponderai:
Non ho tradito!
E se la morte che t'è d'accanto
Ti vorrà in cielo, dall'infinito
Si udrà più forte, si udrà più santo
Non ho tradito!
Per l'onore d'Italia, per l'onore d'Italia
Non ho tradito, non ho tradito, non ho tradito!
Per l'onore d'Italia, per l'onore d'Italia

Non ho tradito, non ho tradito, non ho tradito!



ROMA ELEZIONI APRILE 1948 - ROBERTO MIEVILLE TIENE UN COMIZIO
ROMA 1953 ROBERTO MIEVILLE CON ENZO ERRA

 DANGEROUS FASCIST’CAMP (NON COOPERATORI), DALL’ HYMALAIA AL “305” 
IN EGITTO, DA HEREFORD ALLE AVAI
CAMPO DI ELDORER (KENIA)
I “NON “    ANTIKAMAN DEL LAGER INDIANO YOL N.25        
  
IL GIORNALE DEL CAMPO 305 (EGITTO)


Forse un crimine di Guerra “minore”, perchè le vittime furono relativamente poche, ma un crimine è e rimane un crimine. 
Yol, India, primavera 1942. Nel campo di prigionia n. 25 non ci sono novità. La vita quotidiana dei prigionieri italiani procede come al solito. Ma oggi, 21 aprile 1942, non è un giorno normale. E’ l’anniversario della nascita della Città Eterna, Roma, la Capitale d’Italia; è il suo 2695° compleanno. Nella Patria lontana, è un giorno di festa nazionale (durante il Fascismo lo era, “Natale di Roma e Festa del Lavoro”). Due ufficiali, i capitani Pio Viale di Sanremo (Genova) ed Ercole Sante Rossi di Secugnago (Milano) – quest’ultimo fratello del noto orientalista e turcologo Ettore Rossi – incitano gli altri prigionieri a celebrare la ricorrenza con canzoni patriottiche a tema, come l’”Inno a Roma”, musicato da Giacomo Puccini ed ispirato al “Carmen Saeculare” di Orazio. Rapidamente tutti i prigionieri italiani cominciano a cantare e un boato di canzoni patriottiche si spande per tutto il campo n. 25 fino a contagiare gli altri campi limitrofi. Va a finire che tutti o quasi tutti i circa 10000 prigionieri italiani di Yol cominciano a cantare, e né le urla né i fischi delle guardie riescono a fermarli. Il comandante del campo, col. A. H. Wilson, si precipita presso il fulcro della “festa canora” e ordina a Viale e Rossi di tacere, minacciando di far aprire il fuoco sui prigionieri. I due ufficiali gli rispondono che lui non può impedire ai prigionieri di cantare, o di festeggiare, e aggiungono in tono di sfida un… “Viva il Duce!”. Allora il col. Wilson imbraccia un fucile mitragliatore e freddamente fa fuoco, ordinando anche al sergente Beatson di sparare a sua volta: i due ufficiali italiani vengono uccisi all’istante, senza scrupoli, e altri 5 prigionieri vengono più o meno gravemente feriti. Ecco che le canzoni patriottiche si spengono sotto il rumore dei colpi di arma da fuoco, i prigionieri tacciono, hanno capito… i diritti umani e le loro voci vengono silenziati dalla prepotenza e dal sangue. Però i reclusi non possono lasciare invendicata la memoria dei loro camerati, dopo questo ultimo atto di brutale violenza, e un tale crimine non si può lasciare impunito. Naturalmente la vendetta sarà soltanto simbolica; una simbolica punizione sarà sufficiente e non fornirà pretesto per altri crimini. Il tenete Marino Bolla, nella vita civile studente universitario di lettere, e nella vita del campo addetto ad alcuni lavori nella mensa ufficiali britannica, ha un’idea. I due camerati sono stati uccisi per aver festeggiato il Natale di Roma…? Bene, la vendetta sarà in latino! Con un escamotage Bolla riesce a porre sopra ogni posto della mensa ufficiali britannica una scritta: "Memento Universi Romano Detestatio Exterminatio Ruinaque Supremae". Forse non tutti gli ufficiali britannici di Yol conoscono il latino; ma a quelli che lo conoscono non può sfuggire il tono derisorio nei loro confronti, moderni nemici di Roma, dei versi latini; ma soprattutto la frase è stata scritta in modo tale che in ogni caso tutti gli inglesi possano leggere e capire chiaramente l’acronimo formato dalle iniziali delle parole latine: M.U.R.D.E.R.S. – “A.S.S.A.S.S.I.NI.”! Viale e Rossi sono stati vendicati. Ancora una volta la fantasia italica ha avuto ragione dei suoi avversari. La memoria di Viale e Rossi venne onorata dalla concessione della Medaglia d’Oro. Essendo stata tale onorificenza concessa dopo la guerra, ogni riferimento al Natale di Roma venne omesso dalla motivazione (nel frattempo la Celebrazione era stata soppressa) e a maggior ragione venne omesso ogni riferimento a quel “Viva il Duce!” che pure era costato la vita ai due Eroi.

LATERINA - 9 aprile 1946

....LA FAME MI FA RIVOLGERE A TE 
PER AVERE UN PEZZO DI PANE ANCHE DURO.....

ALBAVILLA
DA CAMPEGGIO PER I GIOVANI A CAMPO 
DI CONCENTRAMENTO PER I FASCISTI
Mussolini aveva creato una grande struttura per ospitare i figli degli Italiani all'estero, nel '45 divenne luogo di sofferenza e detenzione. Viaggio nella nostra storia: cosa soffrirono coloro che erano rimasti fedeli al Duce, tra mancanza di igiene, di acqua e di cibo. Raggiungo l'Alpe del Viceré dopo aver affrontato sei chilometri di strada asfaltata e, per alcuni tratti, racchiusa nei boschi. Gli alberi, proprio in quegli angoli impediscono al sole di filtrare. La giornata è relativamente calda e l'auto si arrampica sugli otto tornanti senza fatica. L'Alpe si trova in un luogo piuttosto isolato, a 903 metri sopra l'abitato di Albavilla, in provincia di Como. È un altopiano che si apre sui contrafforti del monte Bollettone. Nel parcheggio sostano alcune auto: oggi è un punto di partenza per escursioni e passeggiate. Nel 1935 l'Alpe l'avresti trovata nel silenzio, attraversata dal vento, quell'aria pulita e decisa che sfogliava gli alberi, per poi cadere sui prati che continuavano fino a perdersi allo sguardo. Ed è proprio in quell'estate che Mussolini decide di costruire il “Campeggio per i figli degli Italiani all'estero”: 120 baracche in legno (sistemazione provvisoria), poi trasformato, nel 1937, in un “Villaggio alpino”, interamente in muratura. Diciotto edifici sistemati in piccoli gruppi, a formare tre ali di fabbrica che comprendevano un cortiletto piastrellato con mattonelle di colore rosso. Le abitazioni, tutte simili, prevedevano un piano rialzato e una breve scaletta di accesso. Il villaggio, al suo interno, era dotato di un ufficio postale e di un negozio. Inoltre, in un edificio comune, si trovavano i servizi come la mensa, la cucina, le dispense e i servizi igienici. Nel 1940 il villaggio viene evacuato. Con lo scoppio della guerra, l'Alpe ospita le sedi di formazioni militari, funzione che continua anche durante la Repubblica Sociale. Fra febbraio e marzo del 1945 l'Alpe viene bombardata per distruggere i depositi di carburante installati dai Repubblicani. Lascio l'auto nel parcheggio sterrato. Il sole scalda i primi passi prima di entrare nel bosco. Bastano pochi metri per scorgere, appena di lato, quello che resta del cortile piastrellato: qualche macchia di rosso sbuca dalla terra, fra l'erba cresciuta. Alcuni muri, perimetri delle vecchie abitazioni, cercano di testimoniare nonostante il tempo. Guardo gli alberi, la terra, quell'erba che odora in silenzio e provo ad ascoltare: se riescono ad arrivare voci, suoni di un tempo andato. Perché non sono arrivato solo sull'Alpe, su quello che resta del campeggio costruito dal Fascismo. In paese, ad Albavilla, nessuno sapeva niente. Oppure nessuno aveva voglia di parlare. Scambio poche parole al telefono con l'ex assessore alla cultura Gabriele Parravicini. E ripenso a tutto questo mentre sono seduto sulla terra che ha ospitato uno dei campi di concentramento per prigionieri  Fascisti.(riporto fedelmente quanto scritto sul documento del CLN n.d.a.). E grazie a questo documento ritrovato negli archivi di Stato, datato 11 maggio 1945, è possibile ricostruire le condizioni in cui vivevano i prigionieri fascisti. Dato l'alto numero di adesioni ricevuto dalla Repubblica Sociale, nel campo di Albavilla vengono inviati diversi gruppi di prigionieri. È possibile stimare la presenza di oltre 1000 Repubblicani. Il campo è provvisto di quattro baracche (sopravvissute ai bombardamenti del febbraio-marzo 1945) della capienza di 500 uomini (anche se nel documento si stima un eccesso di uomini inviati) che al loro interno dovrebbero avere paglia e terra. Sottolineo “dovrebbero”, perché dal documento si evince che “attualmente il campo è sprovvisto di paglia”. E non è la sola cosa a mancare. Le condizioni igienico-sanitarie sono precarie. I feriti muoiono per le mancanze del servizio sanitario. E chi non ha ferite d'arma da fuoco non è certo più fortunato. È possibile restare senza cibo per giorni. Oltre le baracche è presente un piccolo fabbricato ad uso cucina, capace di accogliere 700 uomini su due turni. Peccato che le gavette e i cucchiai siano pochi. I prigionieri affrontano la sete e la privazione dell'acqua: “l'acqua potabile viene distribuita solamente un'ora al giorno, a mezzo di due rubinetti”. Insomma, manca tutto. Il servizio sanitario è “attualmente diretto da un maggiore medico internato”. Ma il medico internato non ha medicinali, apparecchi per la disinfestazione delle baracche (parassiti e malattie contagiose debilitano i prigionieri n.d.a.). Non esiste l'infermeria, letti o barelle. Così come è assente una farmacia. Insomma, non esiste il necessario per far funzionare il servizio sanitario. Mancano inoltre le latrine a getto d'acqua: in tal modo gas mefitici ed infettivi aleggiano nell'aria del campo. Per non parlare del servizio trasporti. Infatti il CNL di Como non ha previsto neppure di mettere a disposizione del campo di concentramento i mezzi per il trasporto viveri. Nonostante l'evidenza, a seguito di un invio di un “folto numero di prigionieri” viene fatto presente che “il campo deve essere organizzato anche in previsione dei prigionieri che il comitato di epurazione crederà opportuno inviare”. Qualcuno al Corpo Volontari della Libertà deve aver fatto presente lo stato fatiscente del campo, perché nella nota successiva il Cln dispone che si “provveda ad aumentare la capienza delle baracche fornendo paglia sufficiente anche per un eventuale ricambio” e per quello che riguarda il locale cucina “dotare lo stesso di pentolame, gavette e cucchiai”. Per l'acqua corrente “prevedere un pozzo con pompa aspirante per i bisogni, disponendo i rubinetti di erogazione in punti accessibili”. Fra i tanti prigionieri del campo ricordiamo il passaggio del Sottotenente Ruggero Belogi, della II° Legione GNR Ferrovia. Caduto prigioniero dei partigiani, viene detenuto nelle scuole di via Ghislanzoni a Lecco, per poi giungere nel campo di concentramento di Albavilla, dove avrà almeno la gioia di riunirsi al padre, Tenente Colonnello della GNR Ferrovia.
Alessandro Russo
Da “Il Giornale d’ Italia”

Hawaii (Stati Uniti d'America), 1944
Campo di prigionia per italiani internati non collaborazionisti

''Nella foto i funerali del prigioniero italiano ''Domenico Accosato'' nel campo n° 2 di Oahu. A norma del regolamento militare italiano in vigore alla dichiarazione di guerra, i soldati sprovvisti di copricapo dovevano salutare romanamente anche se prigionieri. Gli statunitensi, che in un primo momento si erano dichiarati contrari a tale saluto, alla fine dovettero accettare''.


Stele ricordo dell'ex Cimitero di guerra Italiano, presso il POW 
camp no 31, di Hereford Texas

AUSILIARIA  MIRRI VELIA 

la sua lettera dal campo di prigionia statunitense di Scandicci (Firenze)


LA POSTA DELLE DONNE PRIGIONIERE
CARTA DI PRIGIONIERA DI GUERRA DELL'AUSILIARIA MIRRI VELIA 
Poco conosciuto lo scenario che vide delle donne italiane finire internate a causa della guerra e specificatamente  quello delle aderenti alla Repubblica Sociale Italiana. Peraltro anche tra i civili che gli Alleati internarono perché fortemente "compromessi con il regime fascista" vi furono  delle donne. La fine della R.S.I. travolse anche il corpo delle ausiliarie, alcune delle quali, risulta 367, furono rinchiuse dagli Alleati al pari dei loro camerati militari. I campi inizialmente loro destinati furono il PWE 339 di San Rossore e il PWE 334 di Scandicci, ma la presenza di internate della RSI è rilevabile anche in altri campi, per es. nel “R. Civilian Internee Camp” di Collescipoli (Terni) e nel 370 POW camp di Riccione. Si tratta di posta rara, poiché piccoli furono i numeri, senza distinzione di quantità tra posta spedita dalle donne o posta ricevuta.

Cartolina con la comunicazione dell'internamento inviata alla famiglia da una prigioniera nel campo americano n. 334 di Scandicci in data 23 maggio 1945, attraverso il Comitato Internazionale della Croce Rossa di Ginevra .
La mittente è una giovanissima donna già inquadrata nelle ausiliarie della RSI

NON SOLO  COLTANO
 I 10.000 internati nel "Campo della fame" di Taranto.
Il Campo fu sciolto il 13 aprile 1946
(da L'Espresso del 30-3-46)