Il campo di concentramento di
Coltano, allestito al termine del secondo conflitto mondiale dagli Alleati
nella omonima frazione del comune di Pisa, fu utilizzato, tra luglio e
settembre del 1945, come centro di detenzione per prigionieri di guerra
fascisti della ex Repubblica Sociale Italiana, militari germanici e
collaborazionisti dell'esercito tedesco di altre nazionalità. Il primo campo
per prigionieri di guerra organizzato dagli Alleati in Toscana fu il campo di
Scandicci. In seguito fu creato un nuovo campo nella tenuta di Coltano composto
in realtà da tre campi. Il PWE 336 (418mila metri quadrati) era destinato ai
prigionieri di guerra tedeschi, il PWE 337 (382mila metri quadrati) ai soli
italiani e il PWE 338 (423mila metri quadrati) ai tedeschi e ai
collaborazionisti stranieri, principalmente sovietici.
Il PWE 337
Alla 92a Divisione «Buffalo»
della V armata USA fu affidata, tra il maggio e il settembre 1945, la gestione
del campo in cui furono rinchiusi circa 32.000 ex militari della RSI. Tra i
reclusi: gli attori Walter Chiari, Dario Fo, Enrico Maria Salerno e Raimondo
Vianello, l'olimpionico Giuseppe Dordoni, i giornalisti Enrico Ameri e Mauro De
Mauro, l'orientalista Pio Filippani Ronconi, Ezio Maria Gray, Vincenzo Costa,
Vito Mussolini, il deputato Mirko Tremaglia e il senatore Giuseppe Turini. Fra
questi anche Giovanni Prodi, fratello maggiore dell'ex Presidente del Consiglio
dei ministri Romano Prodi, i generali D'Alba, Farina, Agosti, Frigerio, Bonomi,
Adami Rossi, Gambara, Carloni e Canevari. Della prigionia di Ezra Pound a
Coltano, rinchiuso per 15 giorni in una gabbia di filo spinato senza protezione
dal sole o dalla pioggia e privo di servizi, illuminato da potenti riflettori
di notte, riferisce il maggiore Edoardo Sala. In un secondo tempo, Pound fu
trasferito nel campo di punizione PWE 335 e, nel successivo novembre, negli
Stati Uniti.
ROBERTO MIEVILLE NASCE A
FERRARA IL 14 DICEMBRE 1919. UFFICIALE
DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE. REDUCE DAL CAMPO DI PRIGIONIA MILITARE DI
HEREFORD NEL TEXAS.NEL GENNAIO DEL 1946 FU FRA I FONDATORI DEI FAR (FASCI DI
AZIONE RIVOLUZIONARIA). GIORNALISTA, FU L'ANIMA RIVOLUZIONARIA E SOCIALISTA DEL
MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO, DI CUI FU UNO DEI FONDATORI, GUIDO' IL FRONTE
GIOVANILE, ESSENDO STATO NOMINATO ALL'UNANIMITA' SEGRETARIO NAZIONALE DEL
RAGGRUPPAMENTO GIOVANILE STUDENTI E LAVORATORI. ALLE ELEZIONI POLITICHE DEL
1948 FU UNO DEI SEI DEPUTATI ELETTI ALLA CAMERA NEL MSI. FEDELE AI PRINCIPI
MUSSOLINIANI, SI BATTE' ALL'INTERNO DEL MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO CONTRO OGNI
DERIVA CONSERVATRICE E REAZIONARIA, PER LA CONTINUITA' IDEALE CON LA NATURA
ANTICAPILISTICA, ANTIMONARCHICA E ANTIATLANTISTICA DEL FASCIMO REPUBBLICANO
ESPRESSA NEL MANIFESTO DI VERONA DEL 1943. NEL 1953 FU RIELETTO ALLA CAMERA
NELLA II LEGISLATURA. MUORE IN UN INCIDENTE STRADALE L' 11 APRILE 1955 A
LATINA.
PAROLE CHIARE, TANTO PER INTENDERCI SUBITO
Questo è un racconto dedicato
ai fratelli dì tutte le prigionie, onoratamente sopportate e in particolare
agli Ufficiali, Sottufficiali e Soldati del Prisoner of War Camp di Hereford,
Texas USA.' Chi ha scritto questo racconto,
ricorda i camerati assassinati dal detentore nei Campi d'Africa e d'America
nella lunga prigionia e rivolge alle mamme l'abbraccio affettuoso di tutti i
camerati che li hanno conosciuti e li onorano. La posizione assunta in
prigionia di guerra di fronte agli avvenimenti dell'8 settembre e del Regno del
Sud è stata netta e precisa e dichiaratamente per la Repubblica Sociale
Italiana. I fratelli reduci dai terribili Campi di Russia, India, Kenia,
Rodesia, Algeria, Sahara e Marocco, scrivano la loro storia affinché. rimanga
documentato che la brutalità e la bestialità non era patrimonio esclusivo dei
detentori tedeschi. Forse, anzi sicuramente, qualcuno, ravviserà in questo
racconto gli estremi per una accusa di “ fascismo” o di “ apologia del fascismo
”, ma gli atti e gli intendimenti sono stati quali e tali come sono raccontati,
ed è evidente che nessun rimpianto, c'è per quello che è stato detto fatto e
pensato che se del caso verrebbe nuovamente e con lo stesso spirito detto fatto
e pensato.
Vada questo racconto e dica a
tutti: Onore e Viva l'Italia!
ROBERTO MIEVILLE
Roma, 1947
Roma, 1947
CAPITOLO 1
Con il calare della sera i
francesi, avendo esaurito il loro fiorito repertorio d'insulti e forse un po'
stanchi per la giornata spesa sulle soglie delle loro case, osservavano
indifferenti l'autocolonna di prigionieri di guerra che continuava a passare. Delle navi da guerra avevano
gettato da poco l'ancora al porto militare a Marsha-el-Kebìr e in cielo
passavano rapide le sciabolate dei riflettori. I francesi erano stanchi di
fischiare e d'insultare e, tenevano fra le mani il giornale che li aveva
invitati sulle strade per il passaggio “dei primi 30.000 prigionieri di guerra
italiani catturati in Sicilia senza sparare un colpo di fucile”. Il giornale era “ Stars and
Stripes” e per 2000 franchi algerini anche un prigioniero era riuscito ad
averlo. Quel prigioniero seppe così con
certezza che quel giorno era il 15 luglio del 1943, e imparò che quel
continuare a passare su e giù per le vie di Orano faceva parte evidentemente
del giro propagandistico organizzato dal Comando Militare Alleato del
Mediterraneo. E rise anche quel prigioniero, perchè né lui né gli altri si erano
arresi in Sicilia ma erano stati catturati con le armi in pugno in Tunisia, due
mesi prima. Nella notte. li avevano
svegliati e caricati sui camion li avevano portati da Chanchy, per “imbarcarli”
aveva detto la sentinella Joe. E per tutto il giorno in sù e
in giù per Orano fra gli insulti e i lazzi dei francesi. Ora quel prigioniero aveva
stracciato il numero di “ Stars and Stripes ” e come gli altri, stanco, aveva
chiuso gli occhi. Calava la sera e l'aria era
divenuta fresca. La sentinella Joe, nel buio, disse: -.Ora vi riportiamo dentro. - Dove? chiese un prigioniero. - Dove? Ripeté la sentinella
Joe. Dove non lo so. Dopo un poco la sentinella Joe
ruppe il silenzio. Disse: - Poco lontano. Vi
portiamo poco lontano. L'autocolonna usci dalla città
a velocità pazzesca e dopo non molto prese per una pista polverosa diretta al
Sud. Le sentinelle e anche Joe
avevano bevuto. Bevuto abbondantemente durante tutto il giorno. Cominciarono a sparare delle
raffiche in aria gridando: Uuugh!, come i loro antenati. Ma i prigionieri erano stanchi
e continuarono a dormire.
- Valmy! gridò la sentinella
Joe a un certo punto,, sparando un colpo di pistola contro un cartello
indicatore. La pista divenne più cattiva e
polverosa e le macchine rallentarono notevolmente la loro andatura. Ancora la sentinella Joe sparò
un colpo di pistola e gridò: - A Saint Barbe du Tlelat! Vi portiamo
là, maledetti italiani! Al campo di Saint Barbe du
Tlelat l'autocolonna si fermò e i prigionieri, fatti scendere, avviati di corsa
ai compounds. Al compound 9 gli ufficiali. Era buio completo e i recinti
esterni non erano affatto illuminati come non erano illuminati i reticolati
divisori dell'intercapedine interna. Nel buio, grande confusione per la ricerca
di un posto per dormire: nessuna tenda e nessuna coperta. I più si distesero a terra
stretti stretti gli uni agli altri. Molti continuarono a
passeggiare in su e in giù per il campo in, attesa dell'alba. Vi fu silenzio per qualche
tempo. Poi una raffica nutrita di mitragliatore, seguita da un grido angoscioso
e strozzato: Dio Mamma! fece scattate tutti in piedi. Un'altra raffica e un ultimo
rantolo. Era stato assassinato il
tenente Giardina. E l'assassino era stato una
sentinella. Forse la sentinella Joe. Subito i particolari vennero
sussurrati e arrivarono anche ai gruppi più lontani. Il tenente Giardina era in,
piedi nei pressi del, l'intercapedine di divisione con un campo vicino. Forse guardando le stelle
pensava ai suoi venti anni, alla casa, alla mamma al tutto della vita. Dall'altro lato del reticolato
la sentinella Joe, camminava in su e in giù lentamente. Anche la sentinella
pensava, ma non alla casa, alle pratérie sterminate; non alla ragazza.
Improvvisamente si ferma e imbraccia il thompson e grida: Porco italiano! Il tenente Giardina non capiva
l'inglese e non rispose. E la sentinella, Joe o Willy
che fosse, sparò la prima raffica che colpì l'ufficiale italiano al ventre. Altri ufficiali si lanciarono
per soccorrere caduto, ma la sentinella Joe sparò un'altra raffica sull'ufficiale
caduto e disse: non avvicinatevi o sparo! Il tenente Giardina mori così
senza che nessuno avesse potuto avvicinarsi. Poi venne l'autoambulanza americana e
portò via il corpo del tenente assassinato. Anche la sentinella Joe al
termine del. suo turno so ne andò. Ma la notte era ancora profonda
e non c'era luna e il campo era tenuto completamente al buio. E nel buio le sentinelle Joe
Jack e Willy azionarono la, mitragliatrice pesante di una torretta dirigendo il
fuoco sul campo. Altre urla. Altri rantoli. Dei feriti, è passato molto
tempo da allora, ci si ricorda solo del nome del capitano Gamba; ma furono
molti. Il giorno dopo un alto
ufficiale tedesco, c'erano anche degli ufficiali tedeschi in quel campo, e un
ufficiale italiano: il tenente colonnello Devoto, si recarono al Comando del
campo per protestare contro l'assassinio della notte precedente. - Noi abbiamo vinto, disse il
Comandante del campo. Poi offrì un liquore ai due ufficiali che declinarono il
piacere. Il tenente Giardina fu sepolto
in un luogo perduto nei pressi del lago di Saint Barbe du Tlelat. La sentinella Joe fu decorata
con la Distinguised Service Medal, e ora è a San Diego di California con la sua
ragazza.
CAPITOLO 2
Dovevano passare “ ancora” dei
prigionieri di guerra italiani, e i francesi, riposatisi delle dure fatiche
precedenti, si erano nuovamente riversati sulle strade. Tutti i francesi: grandi e
piccoli, uomini e donne, di ogni ceto e professione, avevano condotto uno
studio particolare nei lupanari e nelle taverne di Orano, per arricchire di
nuove ben più appropriati insulti il vocabolario da usarsi allo spettacolo che
il Comando Militare Alleato del Mediterraneo continuava quasi quotidianamente
ad offrire. I francesi erano ben
organizzati. Al primo apparire della colonna i fischi., poi, poi libertà
assoluta di parola... e dì azione. Questa volta i prigionieri di
guerra italiani erano a piedi. Una lunga colonna di
prigionieri a piedi. In testa alla colonna qualche
centinaia di ufficiali. In testa a tutti un cappellano
militare: Padre Salsa, mutilato e pluridecorato al valore militare. Ai fischi dei francesi si
unirono le matte risate dei numerosissimi ed armatissimi M. P. di scorta.
Fieri, al passo, i prigionieri passavano. Ai fischi e agli insulti, i
gesti osceni di gentili signore affacciate a dei davanzali fioriti erano un naturale contorno. Al passo, uno due, uno due, la colonna si addentrava sempre
più nella città. I visi dei prigionieri erano
duri ed impassibili. Marciava in silenzio la
colonna: portava con sé il ricordo del camerata assassinato a Saint Barbe du
Tlelat e la tristezza della guerra entrata in casa con tanta facilità e poca
contestazione. Qualcuno dei prigionieri poteva
anche pensare con rammarico a una di quelle croci bianche seminate nel deserto
o a uno dei tanti tumuli lasciati indietro senza segni nella lunga guerra. Il sole era alto e il caldo era
soffocante. Da lunghe ore marciava la
colonna: sotto il peso degli zaini tutti: vecchi e giovani, validi e invalidi. Qualcuno dei prigionieri poteva
anche avere sete. Acqua al campo ne davano poca. E le borracce di chi era
riuscito a salvarle dai marocchini, erano vuote. Alla svolta una bella fontana. Un prigioniero chiede a un M.
P. di accompagnarlo a bere. L’M.P. lancia un insulto e
colpisce al capo, con la canna del Thompson, il prigioniero, Il sangue sgorga
abbondante. Il prigioniero, il carrista
Piccolotto di Treviso, non batte ciglio, non si asciuga il sangue che scende
+sul viso. Ride il prigioniero Piccolotto. Ride e intona un canto che
parla di giovinezza e di primavera. E tutta la colonna al passo.
uno due. uno due intona il canto. E i francesi ammutoliscono. Poi uno, più coraggioso degli
altri, corre verso la testa della colonna e alza la mano per colpire Padre Salsa:
mutilato a un braccio e pluridecorato al valore militare.
Alza la mano, il francese. Il
Padre Salsa interrompe per un attimo il canto Guarda in viso lo eroico
esemplare, sorride e riprende a cantare. La colonna al passo: uno due,
uno due, si inoltra per la strada a mare, verso Marsha el Kebìr, verso le navi.
Verranno imbarcati i prigionieri di guerra. - Per l’America, grida un M.P. Ai moli di Marsha el Kebìr
centinaia le navi attraccate. Il mare leggermente increspato. La colonna dei prigionieri di guerra
italiani si incrocia con una colonna di prigionieri tedeschi dal PAK. Le
colonne si fermano per qualche istante. Un ufficiale italiano e un
ufficiale tedesco si riconoscono. La guerra combattuta fianco a
fianco è stata lunga e sanguinosa e bella anche nella sfortuna. Si
abbracciarono. Sidi Rezegh e tanti altri nomi di battaglie sono sulle labbra. Il tenente Antonio Rafauf della
XV Panzer racconta. per inciso di tre colleghi assassinati in quel mese al
campo 9 di Chanchy, dagli americani. Le colonne riprendono a muovere in due
diverse direzioni. Verso due moli diversi. I saluti fra gli uomini delle due,
colonne che si allontanano, continuano. Molto tempo è passato, ma ci si
ricorda di molti che gridarono: Immer Zusamen! e che alla prima occasione
abbracciarono la causa delle Stars and Stripes. “Stars and Stripes“, ancora “Stars and
Stripes”. Fatte poche, centinaia di metri
la colonna dei prigionieri italiani venne fatta fermare sotto una nave, Liberty
di tipo, si seppe in seguito. Dei francesi arrivati fino ai
moli agitavano de giornali e ridevano. Ridevano sgangheratamente. I prigionieri stanchi e sudati
si erano seduti sugli zaini. - Ehi! disse un francese. - Ehi! ripetè un altro
francese. -.Ehi! Chi di voi ha dei figli?
chiese un altro ancora. Molti visi si voltarono. Vi fu
un attimo di silenzio, poi uno degli italiani, il Capomanipolo Fava, caduto poi
in onorata prigionia di guerra in America, rispose. - lo. Io ho dei figli. Perchè? Nuove risate dei francesi che
agitavano freneticamente i giornali. - Capiterà questo - disse
infine uno, e lanciò il giornale verso i prigionieri. Il giornale era “Stars and
Stripes”, e raccontava del primo bombardamento di Roma. San Lorenzo. Molti
prigionieri avevano le lacrime agli occhi. I francesi ridevano. Era il 20
luglio 1943: anche questo diceva il giornale. Il mare leggermente increspato. I draken, di sbarramento,
immobili nel cielo, brillavano al sole. La nave, una Liberty, aveva un
nome: ' P.A.8. E i prigionieri guardavano la
nave. Molti guardavano oltre la nave. Oltre il limite del mare, verso casa. I
pensieri erano tutti tristi.
Da bordo, dei marinai si
divertivano a sputare sul molo. E ridevano quei marinai perchè gli sputi
colpivano i prigionieri.
I prigionieri erano ammassati
sotto il bordo della nave e non potevano scansarsi.
Finalmente, dopo ore e ore di
attesa sotto il sole, senza acqua e senza mangiare, cominciò l'imbarco.
Cominciò l'imbarco, ma i
prigionieri non vennero fatti salire per la passerella. No. No, vennero fatte
calare lungo il fianco della nave le reti d'imbragaggio, e i prigionieri, con
lo zaino in spalla, cominciarono ad arrampicarsi.
Era un diversivo, uno
spettacolo anche quello offerto dal Comando Militare Alleato. Come ridevano i
marinai e. gli M. P. americani Come ridevano! Certo erano buffi quei
prigionieri che non riuscivano che con molta fatica ad arrampicarsi.. Quei
vecchi ufficiali poi, che si facevano aiutare per salire quei sette o otto
metri di corda!
Ma a coloro che riuscivano,
dopo molti sforzi, a scavalcare il bordo, l'accoglienza. non mancava.
Non mancava il saluto a base di
un colpo di bastone, in quel caso una mazza di base ball, uno spintone o un
calcio. E giù, “Italian pigs”, giù, nelle stive.
Dopo molte ore le stive furono
piene, piene zeppe.
Il cielo cominciava ad imbrunire.
Gli M. P chiusero i boccaporti.
Rimasero chiusi per quattordici
giorni, quasi completamente, quei boccaporti.
Quattordici giorni di
traversata, verso l'America. Quattordici giorni di dolore con l'unico conforto:
“La guerra continua! ”.
La nave si chiamava P.A.8. e il
suo comandante era forse stato negriero.
CAPITOLO 3
Solo le “ maniche”
convogliavano giù un po’ d'aria che i prigionieri cercavano di rubarsi l'un
l'altra respirando il più profondamente e frequentemente possibile.
Non c'era molta aria in quelle
stive. I boccaporti chiusi e ben guardati dagli M. P. con il Remington dal
proiettile in canna. C'era il desiderio di aria buona in quelle stive piene
zeppe dì uomini che non potevano lavarsi.
Magari solo due minuti al
giorno sopra i ponti. Ma il Comando aveva altro a cui pensare.
C'era il desiderio di roba
calda per ì malati.
Magari la risciacquatura, delle
pentole del caffè.
Ma non: c'era tempo per
riscaldare la risciacquatura; l'equipaggio pensava agli U. Boots.
Gli U. Boots.
L'aveva detto il comandante
della nave. “Se ci attaccassero gli U.Boots non sperate di salvarvi; voi,
cani... ”.
Cani. Cani Italiani. Aveva
detto così anche quell'M. P. del New Messico, dopo aver rotto il capo con un
colpo di bastone al tenente Zaccherini...
I prigionieri sapevano che non
avrebbero mai potuto salvarsi nonostante il salvagente di Kapok generosamente.
distribuito.
I boccaporti chiusi. E i
salvagenti buoni per appoggiarvi il capo.
Certo, stando così a occhi
chiusi,' veniva da pensare al caso occorso mesi e' mesi prima a una nave
inglese carica di prigionieri italiani... I boccaporti chiusi...
Era stato all'altezza di
Casablanca, il siluramento. All'alba. La nave viaggiava isolata... Era una nave
veloce, di linea,. Veniva da un porto del Sud Africa... Portava a bordo anche
le famiglie di alcuni ufficiali inglesi che rimpatriavano... All'alba... Il
mare doveva essere come l'olio, liscio... la costa non era lontana... e forse
la guardia di coffa osservava il sole che nasceva lontano, dal deserto...
I boccaporti chiusi...
Qualcuno degli alti ufficiali
italiani che in quel tempo prestavano servizio a Casablanca o. Orano o Algeri
presso la Commissione Italiana Armistizio con la Francia, potrebbe raccontare i
particolari... Potrebbe, per esempio, raccontare di quel prigioniero italiano,
che portata a salvamento su un zatterone la moglie di un ufficiale inglese,
quando fece l'atto... di aggrapparsi.. fu freddato da un colpo di pistola...
Il mare era tranquillo. Il capo
appoggiato al salvagente di kapok e gli occhi chiusi. Buonanotte mamma...
La nave beccheggiava
lentamente: la rotta era Sud-Ovest.
Il vitto ora scarso. Gli
organismi indeboliti a non credere. I malati, alla stiva di prua fungente da
infermeria ospedale e quanto altro sotto la direzione del Prof. Sostegni e del
Dott. Salvadori, molti.
La nave seguiva la sua rotta.
Di U. Boots neanche l'ombra.
Il mare sempre tranquillo. Il
cielo, a giudicare da quell'angolino di cielo che si poteva vedere. dal
finestrino dei boccaporti, sereno.
Un mattino fece l'apparizione
fra i prigionieri il comandante della nave. Rideva e bestemmiava.
Rideva. Agitava un foglietto e
urlava un misto di. parole inglesi e italiane.
- Mussolini... disse.
I prigionieri alzarono
debolmente il capo per meglio udire. - Mussolini,...
Un prigioniero prese il
foglietto dalle mani del comandante.
“ Dáily News ” - P. A. 8. Julv 26.
July 26. Portava notizie del 25
luglio.
- Mussolini... diceva,
l'americano.
- Il Duce... sussurrò un
prigioniero appena ventenne. E quel prigioniero ventenne guardava stupito
certi. ufficiali superiori che gridavano: “Evviva!”.
“Da'ily News” , P. A. 8. July 26.
Gli occhi velati dalle lacrime
avevano anche letto della guerra in casa... dell'isola abbandonata e delle
dichiarazioni di un generale catturato a Palermo.
.“lo sono sempre, stato con
voi... Vi aspettavo... ”.
Con voi: cioè con le “ Stars
and Stripes” contro il tricolore.
Il prigioniero si asciugò le
lacrime.
“ La guerra continua ” Il
tedioso e monotono rullio della nave: il gran caldo e la fame e
quell'incessante martellare dei marinai che scrostavano le soprastrutture, non
permettevano molto di pensare.
Ma era un. dolore grande,
quello causato dalla notizia scritta. sul,“ Daily News ” del July 26: era un
dolore grande ma da buoni soldati non bisognava considerare la cosa dal lato
sentimentale. ma, aggrapparsi con t,tte le forze e con tutto lo spirito alla
promessa: “ La guerra continua”. Perchè quello in definitiva contava.
C’erano tutte quelle croci
sparse nel deserto i tumuli dispersi, le tombe senza segni di sorta i corpi
insepolti: c'era tutta la guerra e tutto lo spirito con cui era stata
combattuta, e non bisognava dunque piangere dal momento che quella guerra
continuava “lo stesso”.
Faceva molto male però sentire
imprecare e, maledire tutto quello che prima era stato osannato.
Faceva schifo sentire parlare
contro una guerra fin lì Combattuta, sentire denigrare il valore. La nave
andava per la sua rotta e aveva da poco doppiato le Isole del Capo Verde e
qualche Colonnello, magari già squadrista come un tale di Prato, vantava il
“boicottaggio” alla guerra “ perduta” e raccontava... raccontava...
I marinai battevano forte per
scrostare le strutture della nave, e le mani erano premute disperatamente sugli
orecchi per non udire...Tutte quelle croci sparse nel deserto,... e quelli che
raccontavano... raccontavano... Ben dato quello schiaffo, moschettiere
Vianello.
- E' arrivata una nave, di
spettri, dissero i bambini di Newport il 4 agosto 1943.
Sbagliavano i bambini di
Newport.. era. semplicemente arrivata la P.A.8. con il suo carico di
prigionieri.
Il comandante negriero
dall'alto del ponte di comando attendeva con gioia libidinosa l'apertura dei
boccaporti.
Sostenendosi l'altro i primi
prigionieri arrivarono sul ponte.
I visi bianchi ed emaciati
guardarono il cielo.
C’era ancora il sole, grazie a
Dio!
Quella terra che si vedeva. era
l'America.
CAPITOLO 4
Era un mattino del settembre
quarantatré. Sarebbe stato un mattino uguale era la convinzione di tutti gli
altri: questa era la convinzione di tutti. Del resto quale avvenimento sarebbe
stato tanto importante da alterare in un qualche modo la vita del campo?
Lo stato di prigionia era una
cosa abbastanza nuova, ma ognuno era ormai convinto che nulla avrebbe potuto
alterarne la monotona tranquillità.
Era dunque un mattino come
tutti gli altri Una leggera cortina di vapori ancora il campo. Le cose erano
sfumate e indefinite. Qualche ombra passava veloce sui ballatoio antistanti
alle baracche.
Solo quando il sole riuscì a
penetrare la nebbia; e a fugarla velocemente, l'animazione del campo prese un
ritmo accelerato.
Le baracche erano tutte
ugualmente nere, tutte ugualmente squadrate, bene in fila e allineate.
I reticolati erano nuovi, ben
lucidi e tesi e si intravedevano da ogni punto tagliare la fascia del cielo.
Dopo il reticolato la terra non aveva limite e orizzonte e tutto si perdeva
nella desolazione dei campi di cotone.
Il caldo era soffocante.
Qualcuno aveva per le mani il “Commercial Appeal” che usciva a Memphis o un
vecchio numero del “Life”. Nel campo di bocce facevano la pulitura. Gli M.P.
alle torrette si annoiavano. Lo spaccio era affollato i soliti racconti di
guerra e, i particolari della traversata.
Quelli della P.A.8. cercavano
di convincere un gruppo che aveva fatto il viaggio sulla “ Queen Mary” dello
schiavistico trattamento ricevuto durante il viaggio. Altri bevevano le Coca
Cola a cinque cents e altri sorbivano gli “ice cream”
Improvvisamente una fucilata
ruppe l'aria e si ripercosse nel silenzio divenuto subitaneo Un'altra fucilata
ancora poi un gridare confuso: Assassini! Assassini
Corsa pazza di tutti verso i
reticolati interni. Un soldato giaceva riverso a una decina di metri dall’”Off
Limits ”. L' M. P. alla torretta aveva sparato e ora, teneva il fucile puntato
e gridava nella sua lingua comancha di non avvicinarsi.
Arrivarono degli ufficiali
americani: il ten. Woods e il capt. Anderson: fecero un cenno sentinella e un
medico si poté avvicinare al ferito. Alte erano, sempre le grida: Assassini, e
gli americani sorridevano e dicevano “Okay”. Portarono via il ferito e anche la
sentinella ebbe il cambio.
Mentre gli uomini tornavano
silenziosi alle baracche improvvisa corse una voce. Una voce terribile
agghiacciante che fece tremare il cuore e sbiancare in viso.
-.L'Italia ha deposto le armi.
Questa la prima notizia cruda,
poi col passare, delle ore mentre folti gruppi commentavano soddisfatti
l'avvenimento altre notizie penetrarono nel campo. Portate dagli M. P. e dal
“Private,,del Post Office.
“ Italy has surrendered its armed force
unconditionnally”.
Incondizionatamente! E l'Onore,
Signore ,Iddio?
Poi ancora coi calore della
notte, la radio: La flotta italiana è in rotta per Malta ad arrendersi.
Resa incondizionata
all'insaputa dei tedeschi - Fuga di Vittorio Emanuele da Roma Fuga di Badoglio,
fuga del Governo - Crollo! E per tutta la notte il messaggio di Eishenower
trasmesso dalla C.B.S. “Unconditionally”!
Tutta la guerra combattuta,
tutto quel sangue versato, quelle croci sperdute, tutta la giovinezza, tutto
tradito e rinnegato! E la speranza grande nella promessa: “la guerra continua
”!
E i signori Colonnelli a
brindare con i Coca, cola a cinque cents, sulla disfatta!
E tutti i signori Colonnelli a
vantarsi: Massoneria! E quel Colonnello di Prato a scucire rapidamente dalla
giubba il distintivo da squadrista! Nella chiesa del campo, qualcuno pregava
per la Patria e piangeva della rovina grande. Era l'8 settembre 1943.
Nell'ospedale del campo un prigioniero
moriva.
Le belle navi nel mare
tranquillo andavano a Malta.
E l'onore, signore Iddio?
“ L'Onore militare non esiste i
” disse il Colonnello Bragantini. Era il 9 settembre, e nella notte molte cose
erano corse per i cervelli. Molte cose. Tenente Biondo, tenente Licitra,
capitano Ardigò, tenente colonnello Torta, ricordate le parole? L'Onore
militare non esiste!
Dove sei andato Giovane
Fascista di Bir el Gobi, che rispondesti: - Ma signor Colonnello, per l'onore
militare io vado a morire!
Ci si ricorda molto bene di
certe lettere affisse allo spaccio e nella sala convegno dove “ qualcuno ” si
vantava di aver boicottato la “nostra ” guerra e dì essere stato da molto tempo
in rapporto con gli americani!
Una grande tristezza era scesa
sul campo. Gli animi erano divisi e le fazioni avevano, preso a dominare. Per
il Re. Contro il Re. Per la Repubblica. Per il Duce.
-Tanti scoprirono, di essere
/stati sempre antifascisti e pochi erano stati iscritti.
Gli americani dall'alto delle
torrette commiseravano tanta miseria.
Liste bianche e liste nere e
liste rosse sul tavolo dell'Intelligence Officer !
Era divenuta così anche
l'Italia, del resto. Una Babele, il campo. E il “New York Times” riportava la
frase dell'ammiraglio comandante la flotta inglese all'ammiraglio delle navi
italiane arresesi. “Signore, avrei preferito incontrarvi in battaglia"
L'onore, signore Iddio!
Finiva ottobre quando nel campo
fece la sua apparizione un certo capitano Marioni del corpo automobilistico.
Disse masticando cheeving guum che Gazzera aveva inventato l’A.I.L.V.M. ossia
l'Armata Italiana del Lavoro Volontario Militare. Poiché l'Italia in quel tempo
aveva dichiarato la guerra alla Germania. L'Italia del Sud, il Regno aveva
fatto questo. Noi eravamo già, precursori, per la Repubblica.
Anche Gazzera che fino a pochi
mesi prima aveva firmato le tessere del Fascio, correva al ripari.
E il Maresciallo del tradimento
vendette in quei giorni i prigionieri italiani al detentore. E anche fra i
migliori cominciò la lotta. Kaman? per gli americani. Anti-kaman, contro gli
americani.
Liste bianche. Liste nere.
Liste rosse. E gli M. P. gongolavano.
Nel dizionario Webster un nuovo
verbo era stato coniato: To Badogliate. To Badogliate: tradire.
Tradire in un modo particolare,
speciale, il non plus ultra del tradire, insomma.
E cominciarono a partire per le
Italian Service Unit's, i nostri vecchi camerati di guerra.
Il venerabile vecchio languiva
nell'angusta stanza dell'Ospedale del Monticello P.O.W. camp. Era, sempre,
solo. Gli M.P. vegliavano alla sua porta. Era pazzo, dicevano i generali del
campo. “E’ pazzo! Dice viva Mussolini ! ”.Infermiere Morbiducci potresti
raccontare il pianto del venerabile vecchio. Il nostro generale: Annibale
Bergonzoli, Medaglia d'Oro!
Fu gettato pazzo a languire per
tanto tempo nell'ospedale militare reparto psichiatrico di New York, dalla
cattiveria degli altri italiani. Perchè Barba Elettrica era contro il
tradimento.
Una cella imbottita di caucciù
e tante angherie contro Annibale Bergonzoli, che credeva ancora nella Patria e
nell'Onore Militare. L'onore delle I.S.U.: lavanderia e patate e bombe sulle
navi in partenza da Boston e divisa nemica: italiani sfruttati e portati all'I
Promise dalla fame dalle minacce di rappresaglia alle famiglie da parte della
democrazia americana alleata al Governo Badoglio.
Finiva l'anno 1943. Fu molto
triste quel Natale, ma un nuovo tricolore era salito sul pennone spezzato a
Enfidaville: per l'Onore!
CAPITOLO 5
Il vento di Sud 0vest non
soffiava più da, vari giorni. Il cielo era chiaro e pulito e la neve aveva
cominciato a sciogliersi. Qualche filo d'erba era nato nei pressi dei
reticolati e i camini delle baracche non fumano più con la stessa intensità.
Era aprile e una prima mandria di cavalli era stata vista passare
all'orizzonte.
Le sentinelle alle garitte e'
alle torrette osserva., vano il lento risvegliarsi del campo.
Era aprile di un anno lontano.
La prigionia durava già da lungo e gli uomini dicevano che il tempo si era
fermato.
Nelle baracche il, silenzio
era: grande. Un silenzio ossessionante rotto solo dal fischiare del “ tornado
”. El tornado, così veniva chiamato là quel maledetto vento di Sud Ovest.
Il tempo si era fermato: i
giorni tutti uguali o monotoni.
L'inverno era stato molto lungo
e alla sera faceva ancora freddo. Qualcuno raccontava
nell'intimità dei box dell'ieri
e dei sogni del domani. Ma tutti con il cuore fermo e fisso al punto lontano:
Cassino!
Il 20 aprile 1944 nel 1
Compound dell'Hereford POW Camp, situato nell'altopiano del Texas, la vita
trascorreva lenta e monotona come gli altri giorni. Nelle baracche,
interminabili le partite a bridge e interminabili le discussioni attorno alle
stufe accese.
I prigionieri che passeggiavano
per il campo ogni tanto si soffermavano a guardare la bianca costruzione
dell'ospedale o i primi fili d'erba che nascevano nei pressi del reticolato.
Poi riprendevano a camminare, silenziosi. Il pensiero fisso al punto lontano:
Cassino. E anche alla guerra che durava lontano e. passava lenta e inesorabile
travolgendo casa per casa. Ora erano riuniti lì, quasi tutti, gli ufficiali non
cooperatori. Mancavano gli “anti-kaman” di 'Como e di Monticello.
Ma,sarebbero arrivati molto
presto, sicuramente.
Era il 20 aprile 1944.
-.Domani è il Natale di Roma,
dicevano gli Ufficiali italiani del Compound One.
Anche al Comando Americano del
Campo si diceva la stessa cosa.
- Domani è il Natale di Roma.
E dal Compound, dove erano
ancora gli Ufficiali “ pro-kaman”, era atteso uno spettacolo.
E il Comando Americano diede lo
spettacolo.
Era, il 20 aprile 1944 e,
calata la sera, al Compound One, gli Ufficiali avevano cominciato a coricarsi.
C'era chi pregava e chi
imprecava e chi taceva guardando una fotografia sfilata di soppiatto dal
portafoglio consunto Era l'ora più temuta della giornata quella in cui il
silenzio pian piano filtrando nelle baracche copriva ì discorsi e le parole.
Più d'una guancia ruvida si rigava di lacrime a quell'ora e c'era chi divideva
con il compagno vicino ricordi del tempo passato raccontando di unm giorno in
cui una fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli biondi...
A poco a poco le luci furono
spente e il silenzio fu completo.
Rapide corse di luce sul campo
addormentato: ronzio della -macchina armata in perlustrazione continua attorno
al campo e. ululato di coyote.
Lontano lontano, a casa, il
cannone rombava, Cassino. Cassino.
E nella notte stellata
improvvise e alte le fiamme di una baracca incendiata.
Improvviso e alto l'aaaoon
delle sirene. Cominciava lo spettacolo….
Dal cancello dei Compound, nel
medesimo istante in cui le. sirene presero a suonare, entrarono a passo di
carica, ben armati di mazze, le solite mazze da base-ball, quattro o
cinquecento americani....
Le porte delle baracche furono
spalancate e ai prigionieri, cani italiani, botte…botte... botte da orbi.
Qualcuno dei prigionieri aveva
letto nei libri di Zane Gray e di altri autori di Western's di un certo
“supplizio del corridoio” in uso presso i selvaggi indiani Comanchi. In quella
notte del 21 aprile 1944,, settantacinque ufficiali, già gravemente feriti al
capo nella vigliacca irruzione nelle baracche, dovettero sottostare al
“supplizio del corridoio” improvvisato dai diretti discendenti di
quei famosi indiani Comanchi.
Indiani Comanchi, perchè non erano altro che indiani Comanchi, quelli
travestiti da soldati americani. L'Amarillo Times e l'Amarillo Daily News di
quei giorni riportarono qualcosa del grave incidente avvenuto, nel Pow Camp di Hereford.
Fu accertato dal Comando
italiano del campo dei prigionieri non cooperatori, che l'incendio della
baracca, alibi, giustificativo portato poi dal Comando americano, era stato
provocato appositamente per dare modo di impartire la, lezione. Ed ancora più
grave risultò la premeditazione da parte del detentore nel fatto che sin dal
pomeriggio avanti l'ospedale era in allarme e che tutto era pronto per le
medicazioni.
Fra i feriti di quella notte si
ricordano i nomi del Capitano Cristofori, Tenente Ristagno, Tenente Florio,
Tenente Azzalli: ma furono settantacinque. Può darsi che il Capitano del Genio
Navale Salsa o il Tenente Busia dell'Istituto Luce conservino le fotografie
fatte, in quella notte non certo dimenticabile, e che il Capitano Salomone nella
raccolta di “Rassegna”, sia riuscito a portare in Patria i ritagli dei
giornali.
Il 21 aprile 1944 a Monticello
Camp nell'Arkansas apparve affisso a cura del Comando americano del campo, un
manifesto, diretto principalmente agli ufficiali della IV Compagnia non
cooperatori, in cui si minacciava la Cajenna a chi non avesse cooperato o
firmato il cosiddetto “I Promise ”.
Lo stesso giorno fu fatta una
domanda a tutti gli ufficiali della IV Compagnia:
“Are you, a fascist?”.
“Yes. I am fascist”.
“ Cajenna ”
Il 1 maggio quattrocento e
venticinque ufficiali non cooperatori dei campi, di Como e di Monticello erano
inquadrati nel viale centrale di quest'ultimo campo: destinazione: Hereford,
Texas.
Il silenzio era assoluto. Il
cielo era nuvoloso e gli alti alberi rendevano triste l'atmosfera.
Schierati presso. i reticolati
dei campi prospicienti il viale d'uscita dai Compounds, i soldati, e i
sottufficiali non cooperatori, perfettamente inquadrati per battaglione,
rendevano il saluto a braccio teso e allorché la colonna di ufficiali prese a
muovere, ruppe un canto. Il canto che in quei giorni voleva. dire molto dì più
di' una fede politica perchè impersonava la difesa dell'onor militare, del
passato militare e dell'avvenire militare della Patria.
E sul canto un grido alto che
commosse e fece piangere: - Evviva i nostri ufficiali
Furono momenti indimenticabili
quelli e furono per molto tempo il conforto nella dura attesa.
- Evviva i nostri soldati!
I nostri soldati: tutti nel
nostro cuore. Nella notte nei pressi di un villaggio il trasporto si incrociò
con un treno carico di tedeschi. Erano del P..A.K. Fu scambiato un, grido di
saluto e fu cantato “ Camerata Richard”. I morti sepolti vicini vicini a Bled
Boucha, a Sidi,Tabet e a Enfidaville, l'ultimo giorno. L'ultimo. giorno: prima
dell'ammaina bandiera. L'ultima
bandiera.
L'ultima bandiera: attorno
tanti morti e tanto sangue giù Per le balze di, Enfidaville: un anno prima.
E il 10 maggio, del 1944, nel
campo di Ruston nella Luisiana..., alta nel cielo era la bandiera americana.
- 10 maggio festa dell'esercito
americano.
Tutte le forze americane pronte
a sfilare sotto la bandiera.
Iniziò la sfilata delle truppe
americane: la bandiera, Stars and Stripes, svettava gloriosa nel cielo: e
dietro le truppe americane, Colonnello Bragantini in testa, sfilarono alcune
centinaia di ufficiali italiani aderenti alla I.S.U.
Era il 10 maggio 1944... Solo
un anno era passato. Le ferite ancora aperte, i corpi ancora caldi nelle fosse.
Dal cielo gli eroi italiani
guardavano.
A Cisterna combatteva il
“Barbarigo”.
CAPITOLO 6
Le mandrie di cavalli passavano
più frequentemente all'orizzonte e l'erba cresciuta ai margini delcampo era
divenuta alta e una grande serenità era nel cuore di tutti. Le rondini volavano
basse sulla terra e qualche usignolo si posava a cantare sui fili tesi del
reticolato.
Il cielo era sereno più lento
era l'ammassarsi dei prigionieri dei compounds tre e quattro dell'Hereford
Camp.
Gli uomini vestivano divise
kaki slavate e l'azzurro dei nastrini era stinto.
Quando il sole fu alto nel
cielo l'ammassa mento degli uomini era terminato e dai blocchi frontalmente
disposti un canto si levò a salutare il sole di Roma.
Padre Salsa alzò al cielo una
croce e benedisse i morti e i vivi e baciò una piccola, bandiera tricolore
solcata nel bianco da un'aquila nera.
Non fu celebrata una messa, ma
gli uomini dissero la loro preghiera: preghiera di soldati che si sperse
dolcemente nel silenzio grande della natura.
Era. il 9 maggio 1944 e per
l'ultima volta ranghi serrati di. soldati italiani ricordarono il giorno. Il
sole declinò lentamente e il crepuscolo dipinto a tinte violente nel cielo
trovò gli uomini a pensare alla Patria lontana dove rombava il cannone e dove
la terra era, grazie a. Dio, contesa.
Poi fu notte e di lontano
giunse il canto dei cow boys.
Le sere divenivano sempre più
lunghe e sempre più belli erano i tramonti. Ogni tramonto era uno spettacolo a
sé e ogni sera silenziosi gli uomini sostavano a guardare e a meditare o forse
seguivano i palpiti del cuore che portavano tanto lontano.
C'era chi raccontava di
amarezze passate e di speranze e di lotte e di vendette. Certo il rosso cupo di
quel tramonto a strisce gialle e turchine e continuamente cangiante in infinite
sfumature, conciliava piuttosto a pensieri d'amore e di pace.
Ma nel pomeriggio di quel 10
maggio il campo 3 era stato improvvisamente svuotato.
Il capo Capriotti, medaglia
d'Oro, aveva, fatto però a tempo a radunare i suoi uomini e a gridare, il
saluto agli ufficiali.
Quell'Evviva l'Italia perdurava
ancora nell'aria tiepida.
A. Fort Bliss, d'urgenza, tutto
il campo 3.
-Cooperazione forzata! aveva
detto sorridendo il Ten. Russo, un italoamericano che la notte. del 21 aprile
era entrato con, una mazza in una delle celle della prigione e bastonato a
sangue il caporale Tufanelli. Sarebbe stato promosso capitano, per, questa sua
magnifica azione.
Cooperazione forzata. Il capo
Capriotti aveva riso e con i suoi uomini, incolonnati lungo la pista sabbiosa
che menava alla ferrovia della South Pacific Company, aveva intonato la canzone
dei sommergibilisti.
“ Cooperazione forzata”. Come
era in atto in Africa nei campi controllati dagli “alleati ”.
Il cielo era tutto egualmente
scuro, pieno di stelle.
Mazzucchelli, Farinella,
Battaglini e Zecca erano arrivati da poco da quel campi d'Africa e
raccontavano. "Cooperazione forzata”.
Primo stadio:imbonimento
inaugurato con il giro d'ispezione ai prigionieri italiani del generale
Castellano, quello dell'armistizio.
Secondo stadio per i renitenti:
isolamento e finte fucilazioni; poi bastonate e fame.
Ai , malati nessuna cura previa
firma del’”I promise ”..
Ma a Hereford non si sapeva che
i campi, i criminali campi, fossero guardati da M. P. italiani.
Gli M. P italiani, bravi
encomiati collaboratori che sostituirono le guardie americane e marocchine nel
servizio di vigilanza ai campi. Le “ segnorine ” francesi di Mascara, St.
Denis, Chanchy e Orano erano molto grate agli M. P. italiani, che davano modo,
ai boys di essere liberi la sera.
- Peggio dei veri M. P.!
Capitava che qualche ragazza francese lasciasse andare la faccenda della
pugnalata alla schiena, quando si presentavano sotto le spoglie del
vincitore...
Grandi conquiste dunque per i
collaboratori nei lupanari di Orano e di Algeri e dei paesi più infimi
dell'interno! E quanto mangiare mentre al dì là del doppio filo spinato i “
compatrioti” morivano di fame. I campi dei “repubblicani ”: quelli dei
renitenti.
Già perché allora era molto di
moda l'Evviva il Re anche nei campi d'Africa.
-Chi non è monarchico non è
italiano l'ha gridato parecchie volte il Colonnello Straziota, già dei 7°
Bersaglieri.
E chi non era monarchico...
“Cooperazione forzata”... o ai lavori forzati, alla Transahariana, dove gli
italiani morivano come mosche.
Ma mai una protesta, vero
Governo Italiano del Sud, per quegli italiani che, erano trattati come bestie.
Finiva maggio e gli M. P.
cercavano il guardiamarina Montalbetti. Lo cercavano già da alcuni giorni. Da
tre giorni precisamente. E al terzo giorno all'Albo del Comando Italiano del
Campo apparve un 0.d.G. a firma del Generale Comandante del Campo. Portava “un
encomio solenne per il guardiamarina Montalbetti, assente giustificato dal
campo”
Era cominciata l'epoca delle
fughe.
E l'Ufficio fughe fu molto
attivo. A dispetto del Ten. Dinan, capo dell' Intelligenee Office, in un mese i
reticolati furono tagliati dodici volte.
E di dodici fughe, tre
riuscirono. Meta il Messico o Los Angeles poi l'Argentina.
La Radio di Amarillo annunciava
la fuga, dal campo di Hereford di pericolosi fascisti.
Attenzione! Attenzione! “A
dangerous fascist... ” ecc...
Ma a quelli ripresi:
segregazione, fame, botte da orbi.
Botte a rompere le ossa non è
vero Col. Mariconda, Capitano Ghisi, Tenente Pandolfini, Capitano Salomone?
Che peccato essere stati
prigionieri degli “alleati ”! Certo che se ci si fosse trovati in un altro
paese si sarebbe potuto contare sul compiacente aiuto dei nativi a cui poi
qualche speciale attestato di riconoscenza non sarebbe mancato. Che gente i
civili americani! Aiutavano a catturare i prigionieri fuggitivi invece di
nasconderli e aiutarli...
C’era tristezza i n tutti anche
se il cielo ora azzurro e sereno e l'aria profumata. “Gli alleati ” avanzavano
su Roma.
Il vecchio Generale Scattaglia
diede la notizia.
Il campo tutto inquadrato.
“Roma è caduta".
E un brivido e un’angoscia.
Poi la sera la C.B.S. disse dei
“ fiori” e degli abbracci a Clark e... la Rivista “ Collier's ” porto un
articolo di Frank Gervasi sulle donne. Italiane che “si ottenevano” con una
semplice caramella...e sul New York Times si lesse di un “appartamento
affittabile a Pálm Beach a tutti eccettuati i negri e gli italiani”.
E in quei, giorni un nuovo
interrogatorio.
- Se volete rimpatriare dovete
collaborare.
Volete collaborare?
- No.
- Dunque fascisti?
- Italiani.
- Fascisti?
- Italiani... fascisti...
quello che vi pare. ., ma non rompeteci le scatole ...
Disse il Colonnello Calworth al
Generale Scattaglia:
- Veri soldati questi ...
CAPITOLO 7
Faceva molto caldo nel Texas e
i funzionari del Censor Office lasciarono passare, con un paccodi vecchie
riviste, anche una lettera. La voce si sparse rapidamente per il Campo. Era la
prima lettera che arrivava dall'Italia. Le altre lettere, lo si dava per certo,
venivano distrutte a Fort Meade dove era il Box 20 del General Post Office.
Ora, questa lettera fece il
giro del Campo e fu letta da tutti e venne anche affissa all'Albo del Comando
Italiano.
Era un figlio sedicenne che
scriveva al padre, e nella lettera si diceva, di tanto amore per quella Patria
martoriata e tradita e del fermo proponimento di tenere, tenere fino
all'ultimo. Fino all'ultimo, figlio mio. Fino all'ultimo.
Sulla rivista “Olimpia” “edita”
nel campo cura di Boscolo Anzoletti, venne, riprodotto il francobollo portato
da quella lettera. Raffigurava un tamburino che suonava l'Allarmi!. Quella
lettera fu la prima notizia diretta dalla Patria che combatteva ancora la
“nostra ” guerra.
~ Ma in quei giorni di ottobre
al solito bollettino captato alla radio del campo e che Veniva letto nella sala
convegno si aggiunse un notiziario speciale. “Altre notizie”: veniva chiamato
quel notiziario speciale.
Altre notizie: la voce di Radio
Milano.
C'era sapore di Risorgimento in
quelle enfatiche trasmissioni, captate dalla piccola radio donata dall'YMCA e
sapientemente “ manipolata ” dal Capitano dei G. N. Salza. Nomi cari alla
nostra giovinezza: la divisione “Mameli ”, la divisione “Italia ”; e su questi
nomi tutto un seguito di fantasticherie che facevano rimpiangere la triste
sorte di essere tenuti lontano da dove si combatteva la guerra dei disperati.
Fino all'ultimo, figlio mio.
Fino all'ultimo.
Poi una sera l'attesa del
notiziario speciale andò delusa.
Si seppe che c'era un
informatore nel campo e che gli americani, avvertiti, vigilavano.
Attorno al “posto di ascolto ”
fu stretto, per ordine della “Baracca 312” la Casa del Fascio, un rigoroso
servizio di sorveglianza.
E per quanto fossero improvvise
le irruzioni degli M, P., mai il Tenente Dinan riuscì a “scoprire ” le onde
corte. Ogni perquisizione era una beffa per l’Intelligence Office, perchè la
“onde corte” ora proprio a portata dì mano e bene in mostra su un tavolo della
Sala Convegno.
L'ha saputo molto tardi il
Tenente Dinan che i sigilli della radio erano stati “resi mobili” !
Ed era forse per questo “
scorno” perpetuo che i bravi M. P. rubavano le scarse cose rimaste ai
prigionieri e distruggevano le fotografie di mamme o dei cari lasciate
incustodite nei box. Si, forse era per questo, che si toglieva al prigioniero
l'ultimo conforto in tanta rovina: quello di guardare, guardare all'infinito le
immagini delle persone amate che il tempo e la tristezza facevano di tutto per
rendere sbiadite e lontane. Si, era per questo.
Il Colonnello Calworth aveva
dato precise istruzioni, nel rapporto agli ufficiali addetti ai campi, sulla
“starvation ” morale dei prigionieri.
Ma il morale era alto e mai si
seppe che quella piccola onde corte” dall'ingegno di Salza e dalla, benevolenza
di un M. P. di origine tedesca, Otto R. W. del Montana, era stata trasformata
in trasmittente.
Ma il desiderio di poter fare
pervenire un messaggio dalla Radio del Campo Repubblicano di Hereford: un
messaggio alla Patria lontana, che giungesse di conforto nell'ora dura
vigliaccheria e del doppio giuoco: non poté mai avere il suo compimento.
E in quei giorni di passione,
tramite la Legazione Svizzera, vennero inviate numerose domande affinché il
Campo di Hereford fosso considerato di “prigionieri repubblicani” .E sempre più
si stringevano contro gli “antikaman” i provvedimenti del War Department.
E nell'ottobre cominciò. la
“starvation” morale.
Ore e ore gettati nei campi
aperti al sole. Ore e ore alla sete. E alla fine quando il sorridente
Colonnello: Calworth domandava: - Collaborate?. era sempre il medesimo
primaverile canto di Giovinezza la risposta.
-Very Soldiers!
Il Comando Americano del Campo
era situato nelle vicinanze dell’Ospedale, fuori dal recinto.
Un bell'insieme di baracche con
una strada asfaltata che portava ad Amaríllo City.
IL Colonnello adunò un giorno
attorno a, sè tutti gli ufficiali addetti ai campi e commentò un ordine dell'8.
Servizio del War Department. Diceva quell'ordine di un nuovo tentativo per,
indurre alla collaborazione e di usare dei “mezzi” a disposizione,
sapientemente e per gradi.
Alle 22 di quella sera
suonarono le sirene di allarme e i 4 campi furono invasi dagli M. P. e da un
congruo rinforzo di truppe chiamate da un campo, di addestramento vicino.
Tutti i prigionieri furono
cacciati dalle baracche e portati nei recinti aperti.
Ormai era settembre e le notti
erano fredde. E per circa tre giorni tutti furono lasciati all'aperto.
“Perquisizione a fondo”.
Il Magg. Baldeschi funzionava
da interprete e accompagnando un paio di M. P. nel box di un ufficiale, si
oppose a che venisse strappata una fotografia di mamma.
Gli ordini. dovevano essere
precisi perchè fu aggredito e bastonato dai bravi M. P.
Quando il Generale Comandante
del Campo fece le proteste per i soprusi e le sopraffazioni in netto contrasto
con la Convenzione di Ginevra, il Colonnello Calworth rispose: - War is war,
Generale! E le convenzioni di Ginevra sono le convenzioni di Ginevra, qui siamo
negli Stati Uniti, Generale! Credo che vi convenga dire ai vostri ufficiali di
collaborare. E' meglio per loro... altrimenti...
Ma era ben vivo nel cuore quel
tamburino che suonava l'Allarmi! Altrimenti...
“I prigionieri italiani che si
rifiutano di collaborare o non fanno collaborare gli altri prigionieri saranno
deportati in campi speciali e non rimpatrieranno che dopo molto tempo la fine
della guerra ”.
E in esecuzione a questo
avvertimento affisso all'Albo del' Comando Americano nei vari campi un mattino,
il 9 settembre 1944, giunse l'ordine di “partenza ” per le isole Hawaii di un
gruppo di ufficiali e di alcune migliaia di soldati dell'Hereford “dangerous
fascist camp”. Fra gli ufficiali Padre Salsa.
Doloroso fu il distacco dai
camerati che avevano sin. lì seguito la sorte comune ma la certezza era unica:
nessuno, ovunque fosse stato portato, comunque fosse stato trattato, avrebbe
mollato mai. (E mai mollarono.- I diciotto mesi di segregazione cellulare fatti
scontare nei campi delle Hawai al Tenente Della Casa, al Tenente Martinuzzi, al
Tenente Martucci, al C. M. Gatti e al Tenente Stupenengo nonché a un numero
infinito dì soldati, non fecero che confermare gli altri nel proposito e nella
linea di condotta stabilita a.Hereford: Anti-kaman sempre!).
Padre Salsa. disse l’ultima
messa e con gli altri cantò la preghiera dei soldati, poi raggiunse la colonna
che si avviava lenta per la pista sabbiosa.
A un certo punto il Padre Salsa
si voltò verso il campo, da cui giungeva il canto di. saluto dei rimasti, e
fece il segno della benedizione.
Fu visto un M. P. di scorta
dargli uno spintone: Avanti, Kome on, on let’s go!
La -colonna che piano piano si
allontanava verso il tramonto purpureo cantava.
Cantava e cantò sempre, anche
alle Hawai, anche nelle dure ore di fame e di stenti, quellalegione di
fratelli.
Nelle baracche e nei campi ci
fu molto silenzio quella sera.
Un'aria di tristezza grande
aleggiava su di tutti.
C'era la luna piena e l'aria
era fredda.
A Gargnano il Duce vegliava.
CAPITOLO 8
Gli M.P. guardavano il lento
andirivieni dei prigionieri per le strade del campo e ogni tanto, poiché era il
crepuscolo, facevano correre i fasci luminosi dei riflettori sui tetti delle
baracche e sulla campagna silenziosa.
Il cielo non' era buio n a
grigio e pareva fosse fatto di una immensa coltre di velluto tali e tanti erano
i riflessi e le sfumature che causava una leggera striscia d'argento rimasta
all'orizzonte.
Fra gli M.P. alla torretta
Nord, Joe e Dik parlavano del. loro paese.
Diceva Dik: Si sta bene nel
Nevada. E Joe: Certo. Qui dì bello c’è' solo il tramonto.
E Dik dopo un' attimo Il
tramonto. Anche nel Nevada c'è il tramonto.
E Joe ancora dopo: In tutti i
paesi della, terra tramonta il sole. Ma qui tramonta in un altro modo ecco.
Forse Dik.stava per ribattere
che il tramonto del sole è bello anche nel Navada, ma uno squillo di tromba
proveniente dal campo sottostante troncò il corso dei suoi pensieri. Poi, Joe
in quell'istante aveva lanciato la luce del' riflettore sul campo.
Anche dalle torrette degli
altri campi la luce corse rapidamente sulle strade e sulle baracche per
perdersi nella campagna.
I prigionieri avevano smesso il
loro andirivieni e tutti andavano pian piano adunandosi lungo il reticolato
Nord. E anche negli altri campi avveniva la medesima cosa e in breve i quattro
campi furono allineati in un unico schieramento frontale.
- Capisco, disse Dik. Aspettano
gli altri.
Era venuta chissà come, nel
campo, quella notizia. Forse era sfuggita al Capitano Pierpont all'Ospedale.. O
l'avevano imparata dalle guardie delle prigioni, quelli che portavano il
mangiare ai, “segregati ”.
- Arrivano. Arrivano
dall'Italia.
Tutti in, agitazione nei campi,
per quella notizia. Ed erano corsi rapidamente degli ordini dal campo 4 agli
altri campi.
Si dicevano tante cose nei box
e per il campo. Cose come queste:
- Forse ci sarà qualcuno della
mia città
- Già, tu sei di Treviso...
- Già, di Treviso. . . E non'
ho mai avuto una lettera... Mai.... Mai da nessuno.
- Quindicimila ne ha uccisi, il
bombarda mento. Sono tanti!
E a Roma battevano le mani...
E Croce? Non hai letto il
“Chicago”? Dice che pregava per la sconfitta...
- Maiale anche lui... Anche lui
come Sforza che vuole fare le legioni volontarie per liberare la Patria.
Mah! Sapremo qualcosa
finalmente.
SI, qualcosa di più di quel
tamburino che batte l'allarmi.
Poi avevano cominciato a
prepararsi. Non era molto facile, non commuoversi nel rimettere, per
l'occasione, quel che era avanzato, delle antiche divise. Togliersi una volta
tanto di dosso quei maledetti indumenti marcati di P.W. gialli e neri e rossi.
Marcati. Marcati come bestie. PW. PW.
PW. dappertutto. PW. e numeri.
17192 PW. uno. 17193 PW. l'altro e cosi via, tutti marcati e numerati. E nello
schedario del Federal Bureau of Investigation le fotografie numerate e le
impronte digitali. Ma certo era una consolazione pensare che gli M. P. erano
ugualmente schedati e registrati.
Li reclutavano a Sing Sing, gli
M.P. Quando fu il crepuscolo tutti erano pronti.
- Arrivano alle otto. Suonerà
l'adunata. E la tromba, puntuale, suonava l'adunata.
Adunata di tutti, secondo gli
ordini, fronte al reticolato Nord: di là sarebbero arrivati.
Qualcuno salito su una baracca,
cercava' di scrutare in direzione della pista sabbiosa, verso la ferrovia, per
vedere i fari delle macchine.
Nei campi cantavano già.
Cantavano . tutte le canzoni. Quelle vecchie sahariane stinte e anche
insanguinate e quei canti: tutta la nostra. giovinezza!
Il cielo non era più così
grigio e quella striscia d'argento all'orizzonte era divenuta violetta, quando
le prime luci ruppero il buio della piana.
- Arrivano! E all'annuncio,
subito i canti si tacquero e gli occhi ansiosi presero, a seguire quella lunga
teoria di luci che sempre più si avvicinavano.
Quando le macchine furono forme
gli M. P., che attendevano in prossimità del “Blok-house” d'entrata, si
lanciarono per -fare scendete i prigionieri.
- Konie,on! Kome,on let's go!
I nuovi arrivati scendevano e
si mettevano in fila. Poi un primo gruppo prese ad avanzare verso i recinti.
Tre squilli di tromba echeggiarono.
Tre squilli ,l'allarmi! e i quattro campi si irrigidirono sull'attenti.
E nel silenzio divenuto
fantastico una voce tremante di commozione lanciò il saluto.
Il campo di Hereford vi saluta!
W la Repubblica!
Per qualche tempo ancora vi fu
silenzio. E nel silenzio s'udiva il passo cadenzato del gruppo che si
avvicinava. Poi una voce che rivelava nel cuore lo stesso tremito di tutti
disse: - Viva l'Italia, fratelli!
Il cuore batteva tanto forte
che pareva dovesse rompere dentro. E dalla colonna che si andava sempre più
ingrossando, cominciarono a cantare.
E per ascoltare quel canto si
fece silenzio.
Era un canto nuovo e pieno di
passione. Era il canto della “ X MAS ”.
Con il cuore sospeso, si
ascoltavano quelle parole. Gli occhi, già umidi per quel commovimento intimo,
determinato da tanta passione e da tanti ricordi, non seppero trattenere le
lacrime quando quel canto disse: “ ... Nostri fratelli prigionieri o morti noi
vi facciamo questo giuramento noi vi giuriamo che combatteremo…”
La Patria non aveva
dimenticato, dunque.
E mentre il cielo si riempiva
di stelle, tutti, con ì nuovi, presero a cantare: ... “Quando l'ignobile otto
di settembre... ”.
I riflettori si accesero e
infine gli M. P. spalancarono il cancello.
E al passo, perfetta, entrò la
colonna che cantava.
E dalla testa della colonna uno
corse avanti e gridò:
- Vi portiamo l'abbraccio della
Patria!
E tutti corsero a braccia
aperte. E mai abbraccio fu più forte e tenace.
A lungo durarono i canti,
quella sera indimenticabile del settembre '44.
E fino all'alba attorno ai
fratelli a chiedere, a chiedere all'infinito.
E in Patria? Dimmi in Patria...
In Patria, lassù, nella Repubblica...
Avevano combattuto a Cassino,
ad Anzio, Cisterna, a Caroceto, sul mare e nell'aria.
Tristi i racconti anche se sublimi
le gesta. Poi gli sputi delle donne a Napoli, al campo di Aversa.
- E' vero, allora? Per una
caramella...
- Non so... Non credo...
- Qui tutti i giornali l'hanno
stampato... Di la verità. E' vero?
- Non credo... fino a questo
punto...
E tutta la dolorosa trafila
fino ai campi d'Africa. Anche', loro Chanchy, anche loro la passeggiata per
Orano. E racconti di M. P. italiani, “ peggio di quelli veri”, e di finte
fucilazioni...
Così, ad Aversa? E' vero che...
Così ad Aversa! Quella è
l'Italia, oggi. Non ti puoi fidare, di nessuno!
- E i partigiani?
- Ne ho sentito parlare,
camerata. Non ne ho mai visti, io. Partigiani? No, mai visti.
Tutto è crollato camerata!
- Come ti chiami?
--Tognoloni, decima, Barbarigo.
Io, Barocci, dell'Ariete. Sei
passato per Rimini? Non c'è più niente...
Non c'è più niente...Case
distrutte. Città distrutte. Amici morti o scomparsi. Che tristezza questa vita!
Tornare.
Quando? Andare a vedere.
Quando? La mamma, il, babbo, la sorella, la fidanzata, dove sono? Nn c'è più
niente…
- E' passata la guerra,
fratello.
E pare, nella notte fresca,
d'udire la lontana eco del cannone che batte batte su quella povera terra
squarciata e insanguinata e contesa al nemico avanzante.
E su tutti e per tutti una
preghiera.
Signore Iddio, mio, salva l'Italia!
CAPITOLO 9
Correvano da più di un'ora i
prigionieri di guerra. E gli M.P. con i thompson's puntati facevano molta
attenzione a che nessuno rallentasse l'andatura. Al di là del reticolato si
vedeva un'immensa distesa di baracche e oltre quelle campi di carri armati e camion's
e cannoni e uomini, migliaia di uomini dappertutto. Era il campo di
addestramento di Fort Bliss, e quei prigionieri continuavano a correre, mentre
gli M.P. sorvegliavano attenti.
Il Capo Capriotti era in testa
alla fila., Come gli altri aveva tanta sete ed era sfinito Le ferite avute ad
Alessandria quando era andato a silurare la “Valiant”, gli dolevano anche per
le botte ricevute il giorno prima.
“Cooperazione forzata”.
Sfinirli con la corsa o con la sete: un sistema come un altro per fiaccare, gli
animali. Correre. Correre, senza sosta, per ore e ore. Chi cadeva veniva
coperto di botte e portato -via, all'Ospedale.
“Cooperazione forzata”. Tanta
sete e tanta stanchezza. E gli M.P. che si davano il cambio ogni mezz'ora, e
guai a rallentare l'andatura.
Passarono le ore e venne sera.
E pochi erano rimasti in piedi. Capo Capriotti continuava a tirare la corsa: le
labbra sanguinavano ma il cuore non voleva cedere.
C'era. la luna quando gli M.P.
dissero di smettere la corsa. Nove ore aveva durata la corsa. Nove, ore!
E per le baracche piene di
lamenti, gli M.P. passarono a chiedere la' collaborazione.
Gli uomini non' avevano più
respiro. Ma per tutti Capo Capriotti rispose:
- Neanche se ci ammazzate,
cani!
L’M.P. gli diede un colpo sulla
testa con la mazza. “Cooperazione forzata”. Si stancarono gli M.P. e si stancò
il comando del campo. - Very soldiers'.
Già da tredici giorni quei
mille uomini erano a pane e acqua. Lungo il recinto esterno correva la strada
che portava a El Paso e numerose erano le macchine civili che si fermavano. Era
un bello spettacolo quello di quei mille uomini distesi per terra immobili. Ed
era bello sentirli cantare..
Cantavano ogni volta che
entravano gli M.P. a portare l'acqua e il pane.
C'era il tenente Strohn che si
era assunto l’incarico di fare “cooperare” quei fascisti a tutti i costi e
c'erano gli M.P. armati di mazza che aspettavano fuori del recinto.
Capo Capriotti aveva visto
quello spiegamento dì forze e osservava. Vicino a lui il caporale Leonardi, un
ragazzone alto e grosso e buon pugilatore. Il tenente Strohn finalmente apre il
cancello del recinto. Contemporaneamente gli M. P. si schierano su una unica
linea e imbracciano i thompson's. Il tenente Strohn, abbondantemente armato,
entra nel campo e si avvicina, a uno di quegli uomini stesi a terra.
- Alzati, cane! - gli dice.
L'uomo steso a terra lo guarda
e non si muove e allora il tenente Strohn lo colpisce violentemente sui fianchi
con la mazza.
Gli altri uomini si alzano a
quella provocazione e cominciano a muovere verso l'americano.
Ma primo fra tutti il caporale
Leonardi. Arriva di . corsa e si pianta davanti all'americano.
Perchè l'hai picchiato?,
chiede. - Perchè, vigliacco ?
Il tenente Strohn alza la mano
per colpire l'uomo, il “ gringo ”, che osa parlargli in quel modo, ma l'uomo fa
un passo indietro e, lo colpisce con un violento destro in pieno viso,
L'americano cade a terra e rimane immobile.
Dal cancello entrano. di corsa
i soliti indiani comanchi vestiti da M.P. e si buttano addosso caporale
Leonardi. Ma il caporale Leonardi ne atterra parecchi.
Poi l'hanno sopraffatto e
l'hanno portato in una stanza del comando americano.
E' solo e di fronte a lui sono
otto americani armati di mazze di caucciù. Gli dicono di chiedere scusa. Ma
Leonardi non è un uomo da piegarsi e allora gli sono addosso. !Quante !botte,
quante botte! (Non camminavi più il giorno dopo caporale Leonardi e da quel
giorno hai cominciato a declinare o la memoria ti abbandonava e dopo un mese
dal rientro in Patria sei morto, Morto pazzo per le, botte di allora, signori
del Governo!).
A Marana nell'Arizona, c'era un
altro campo non collaboratori. E c'era anche un ospedale dove ricoveravano gli
ammalati di T.B.C che non avevano aderito alla collaborazione. Se avessero
aderito li avrebbero mandati nel Colorado o a Santa Fè dove l'aria è buona non
Ii nell'Arizona dove il clima era soffocante quasi quanto quello della
depressione di El Cattara.
In uno' dei ward's
dell'ospedale c'era un tenente che stava per morire. Già da molto tempo lo
stavano torturando perchè collaborasse. Ogni sorta di cose gli dicevano. Che la
famiglia sua ora era sotto gli americani e che so lui rimaneva in
quell'atteggiamento ostinato l'avrebbe molto danneggiata. Ma il tenente non ne
voleva sapere. Diceva:, “Non mi importa. Io non mi vendo. Resto quel che sono
”.
Ora era l'agonia. Al suo
capezzale c'era padre Daniele Dal Sasso del V Bersaglieri e il
maresciallo Moriondo, il capo
campo.
Ormai aveva avuti i santissimi
sacramenti. Sapeva che stava per andarsene e mormorava dolci parole per i suoi
di casa. Padre Daniele lo confortava e gli parlava di Dio e della salvezza
eterna.
Era sera tarda e l'aria era
ancor più calda e opprimente. L'agonia durava frammista a momenti di lucidità
piena.
Nel ward entra anche il
cappellano americano, don Barbato, con un foglio in mano: “L'I Promise”: la
scheda di collaborazione, e si avvicina al moribondo e gli dice: Salvati...
Salvati e salva i tuoi... firma... Padre Daniele Dal Sasso insorge inorridito.
Non bestemmiare... non
bestemmiare... ”, ma il prete italo-americano non se ne dà per inteso e
insiste, insiste con le parole più atroci e tortura gli ultimi attimi del
moribondo con un, insistente “Collabora... collabora... collabora”.
La morte libera finalmente il
povero tenente.
L'ha sepolto Padre Dal Sasso
nel piccolo cimitero,dell'Ospeda1e di Marana. E ai suoi compatrioti hanno
proibito di accompagnarlo all'ultima dimora. Povero camerata nostro, le tue
ultime parole sono state: “Non mi torturare... Non mi torturare, resto
fascista... ”.
Il sole era alto e il caldo
opprimente. Il campo era deserto come il paesaggio attorno che era rotto solo
da qualche cactus gigante. All'ingresso del campo, proprio sopra il capo della
guardia, c'era il nome: Florence POW Camp. E anche a Florence, in piena
Arizona, a qualche chilometro, da Maràna, prigionieri non collaboratori. Ma
anche a Florence c'era l'ordine dell' VIII Servizio del War Department:
Cooperazione forzata. Certo che ad ogni Comandante di Campo era lasciato quel
tanto di margine perchè potesse mettere meglio in luce le sue qualità e le sue
iniziative. Il comandante del campo era del New Messico e da suo padre che era
un indiano della Peoria aveva imparato molte “ finezze ”. Sorrideva il
comandante del campo di Florence a quel suo “
sistema” per indurre alla,
cooperazione quei maledetti fascisti... A qualche chilometro dal campo i
prigionieri italiani, dopo una corsa estenuante nella sabbia,
erano stati inquadrati dagli
M., P. e attorno al blocco era stata tracciata una linea... Gli M. P., il
thompson puntato... il sole alto... sete... e guaì a sedersi... guai a passare
quella linea... A qualche metro dalla linea un camion aveva scaricato un bidone
d'acqua. .Passavano le ore e gli M. P. ridevano di gusto a vedere quei maledetti
italiani contorcersi e sforzarsi di non cadere... (Qualcuno era svenuto per un
improvviso colpo dì sole e l'avevano portato al campo dove appena rinvenuto gli
avevano sottoposto la scheda di collaborazione).
Fu verso il tardo pomeriggio che
uno di quei prigionieri fece un passo avanti, verso la linea... Forse quel
prigioniero non voleva passare la linea.
Non si è mai potuto sapere cosa
volesse perché un colpo di thompson lo stese a terra.
Bravo quell'M. P.: con un colpo
solo l'aveva azzeccato!
L'indiano della Peoria che,
comandava il campo invitò l'M. P. a cena, quella sera.
E quella sera stessa, nel
cimiterino contornato di cactus, fu scavata una fossa. Misero una croce, e
Padre Daniele recitò le preghiere.
Là in Arizona c’era una Farm.
Una donna era la padrona. Una donna giovane che veniva spesso al campo di
Florence a bordo di una lussuosissima Ford. Veniva a prendere dei prigionieri
ogni giorno per i lavori nella piantagione di cotone. Era obbligatorio quel
lavoro--- “Convenzioni di Ginevra ”: i soldati sono obbligati in lavori che non
siano di produzione bellica. Obbligati a lavori da schiavo come quello della
raccolta del cotone! Ma la giovane donna amava avere attorno a se quei bei
ragazzi robusti non solo per il lavoro nelle piantagioni e sono molti quelli
che potrebbero raccontare qualcosa di una certa farm... Per molto meno di una
caramella... quella giovin signora.
Per molto meno. Anche con
qualche negro, quella signora che veniva al campo di Florence in una lussuosa
Ford e con il frustino indicava il prigioniero che voleva quel giorno.. Al
tempo di Morgan, nelle Barbados, facevano nello stesso modo le figlie dei
nobili inglesi delle colonie. Qualche schiavo negro,. qualche schiavo bianco,
tanto per passare il tempo in attesa del matrimonio...
Intanto ora venuto l'inverno e
la neve aveva preso a cadere abbondantemente. A Hereford
giungevano prigionieri da tutti
i campi periferici per svernare.
E in quei giorni arrivò una,
cartolina dal campo 25 nel l'India. La data era 8 settembre 1944 e il testo
diceva: Anche, per noi questo è un giorno di lutto.
E in una notte di tormenta
suonò l'allarme. Ben presto i campi furono pieni di M. P. e tutti i prigionieri
nella neve. Perquisizione. Perquisizione e verifica se tutti gli indumenti
indossati portavano la prescritta stampigliatura, di P. W.
E con la neve che cadeva gli M.
P. imbacuccati si divertirono un mondo a far e spogliare quelle “ bestie
italiane ”. “ Bestie italiane ”, dicevano.
Ma ad Anversa c'era la ritirata
e i prigionieri lo sapevano e speravano. Speravano tanto, e sopportavano.
La neve cadde per molti giorni
e quando fu gennaio i reticolati vennero tagliati, da tre ufficiali.
Arrivarono a Los Angeles quei
tre ufficiali.
CAPITOLO 10
La neve se ne era quasi
completamente andata. Rimaneva qualche chiazza bianca al riparo delle dune o
nei fossi, ma era ormai questione di qualche giorno e poi tutto il paesaggio
sarebbe stato pulito e sgombro. Anche il “ tornado ” aveva principiato a
mulinare sull'altipiano del Texas. Gli uomini erano costretti nelle baracche
per quel gran vento di sud ovest e continuavano nei loro passatempi invernali.
C'era chi aveva scritto addirittura dei romanzi. Un libro era divenuto famoso
infatti. Era il libro di Giuseppe Berto: “I1 cielo è rosso”. Su quel libro l'autore
contava molto. Una
volta tornato in Patria si
sarebbe presentato a uno dei grandi editori e avrebbe detto: Sono stato dieci
anni a servire il mio paese in Africa. Ho perso tutto. Pubblicatemi questo
libro e farete fortuna ”. C'era anche chi aveva continuato solamente a sognare
sul passato e che diceva che il mondo si era fermato. Tutto procedeva
tranquillamente dunque: pareva che gli americani avessero finalmente capito che
“li nessuno mollava” e non avevano più insistito, con la storia della collaborazione.
Nei campi si parlava persino di un prossimo ritorno. Prossimo: appena finita la
guerra. Lo si capiva che la guerra era. Alla fine e che ormai non c'era più
speranza di vittoria. V 1, V2, cose belle, cose grandi che non avrebbero potuto
modificare il corso degli eventi.
Era dunque tornata una certa
“diffidente” serenità nei rapporti con il detentore e veramente inaspettato
giunse il provvedimento che tagliava quasi completamente i viveri. Cosi, dalla
sera alla mattina, a 500,600 calorie complessive, tutti, vecchi e giovani. Il
War Departement era deciso a farla finita!
Falliti i tentativi con la
“starvation” morale provava con la “starvation” fisica. Forse colpiti nel
fisico quegli ostinati avrebbero ceduto e sarebbero venuti a patti. Le normali
attività dei campi cessarono quasi di colpo. Niente più sport, niente più
letture. In poco più di un mese tutti erano stati ridotti al limito delle
forze.
Non valsero. le proteste in
nome delle Convenzioni di Ginevra, firmate dal prof. Gabitto e sottoscritte dal
generale Scattaglia. Ginevra? Non c'è Ginevra per vinti... (Intanto la campagna
di stampa contro, i prigionieri assumeva un tono quanto mai cattivo reclamando
provvedimenti draconiani e immediati).
La, percentuale della
popolazione dei campi era composta di giovani dai 16 ai 35 anni, e ancora una
volta il prof. Gabitto fece presente le gravi conseguenze che stavano derivando
per la mancanza di nutrimento. Comincio il C. M. Lucotti con il T.B.C....Intanto
la guerra precipitava. Roosvelt era morto e il Reno era stato passato. E un
giorno si sparse la dura, tragica notizia.
Chi non pianse quel giorno nel
campo?
-E' morto! L'hanno assassinato!
In quei giorni gli americani si
dimostrarono, per la prima volta dei soldati. Non mancò ufficiale americano
che, davanti al nostro dolore, non si sia sentito in dovere di deprecare
l’orrenda fine e di fare “a dei veri soldati, le più sentite condoglianze d'un
soldato ”.
Il 30 aprile il campo celebrò
un rito. Non c'era prete per poter e dire una messa i Ma davanti a un catafalco
coperto con i colori della Patria, fu cantata la. preghiera del Legionario e un
Ave Maria fu mormorata per tutti dal capitano Secolo del 31 Guastatori. E da
quel giorno il campo fu in lutto.
Il New York Times dedicò agli
italiani questa testata su sei colonne: “ Gli italiani hanno sputato su
Mussolini, il mondo dove sputare sugli italiani”. Questo per non dire parole
dei commenti. Del Chicago Herald Tribune e del San Francisco Examiner,
Si distinsero come sempre il
“Mondo ” e la “ Voce del popolo ”: settimanali in lingua italiana che
riportarono spesso dei pezzi di quel tale conte Sforza delle Brigate Volontarie
per liberare il paese. Ora il paese era libero!
Era libero il paese, di subire
l'onta di Esperia e Montefiascone.
Passò qualche tempo ancora e,
dato che l’Italia si considerava in istato di guerra con il Giappone, il War
Departinent, che non aveva ceduto di una linea nei provvedimenti affamatori,
chiese agli Italiani di cooperare contro il Giappone.
Era evidente che il War
Department sprecava il suo tempo. Sprecava il suo tempo anche se i prigionieri
non erano più in grado di stare in piedi per la grande debolezza. Non poteva
spaventare lo spettro della T.B.C. al punto di cedere e venire meno all'impegno
d'onore assunto reciprocamente di resistere in quella linea di condotta fino
alla fine della prigionia. E le vessazioni in grande stile ripresero dunque nel
giugno del '45.
Cominciarono con la storia del
saluto romano.
“E' proibito il saluto
fascista. I prigionieri saluteranno come si usa nell'Esercito Americano”. Fu
fatto osservare che il Regolamento italiano prescriveva che a capo scoperto si
doveva salutare romanamente e che... nessuna modifica era stata portata a
conoscenza in nome della Repubblica. Quale repubblica,? Come non c'è la
Repubblica in Italia No? E' finita! Ore c'è di nuovo il Regno'?
Ah, si! Bene allora, ci
dispiace, ma noi siamo della Repubblica e...
Diventarono lividi di rabbia
gli americani! Lividi fino al punto di arrendersi dopo il fatto ”Plaisant ”.Il
fatto “Plaisant”.
Il tenente Plaisant, un sardo,
passeggiava tranquillamente per le strade del campo e seguiva il corso dei suoi
pensieri, pieni della speranza grande di un sollecito ritorno.
Entra la macchina del Colonnello
Calworth e si ferma a pochi passi dal tenente che senza guadare passa oltre.
Il colonnello scende. Ehi! Ehi,
grida.
Il prigioniero Plaisant si
ferma: lo esamina bene: vede che è il colonnello, fa un passo indietro e alza il
braccio in un perfetto saluto romano.
Numi dei cielo! In quattro e
quattro otto in carcere, a pane e acqua, il prigioniero Plaisant.
Quindici giorni. Al termine dei
quindici giorni, il prigioniero, Plaisant, viene riportato davanti al
colonnello.
Il prigioniero entra: guarda in
viso il colonnello, batte i tacchi e alza il braccio nel saluto.
Numi del cielo. In carcere:
quindici giorni pane e acqua.
Al termine dei quindici
giorni...
Il colonnello si stancò e dopo
quarantacinque giorni rimandò il prigioniero Plaisant nel campo.
Chi la dura la vince. O meglio
“Vince sempre chi più crede, chi più a lungo sa patir... ”.
Il mesi passavano lenti.
Cooperazione forzata. Cooperazione, collaborazione, ordini del Governo del Re.
Lettere dell'Ambasciatore Tarchiani presso gli USA:, niente da fare, i prigionieri
non si muovevano d'un palmo. Che doveva fare il buon Calworth se non ripigliare
i sistemi dell'anno precedente?, E di nuovo i sistemi di Fort Bliss, di Marana,
di Florence Ancora soprusi, bastonature: segregazione.
Nei campi i prigionieri, erano
già arrivati a mangiare le cavallette e la paglia e all'ospedale non
ricoveravano più nessuno, 'Crepate cani italiani!
Il cimiterino di Hereford
cominciava a contare parecchie croci. Piccole croci bianche a un paio di
chilometri dal campo: per l'Italia!
E a Santa Fè, al tubercolosario
erano, stati avviati parecchi dei soldati costretti ai lavori nelle fonderie.
(Alle fonderie di Dallahrt, senza vesti di protezione e alla fine 500 calorie a
base di soia,signori del Governo!). E nel campo 6 da quaranta giorni,
all’aperto, trecento sottufficiali vivevano a pane e acqua e non mollavano. E
nel campo ufficiali era la medesima cosa: Boia chi molla!
E a tutto questo le
perquisizioni a notte piena, le manganellate a tradimento come capitò al
tenente Busia che stava seduto a pensare alla sua mamma proprio sulla porta
della Baracca Chiesa.
Libera, democratica America i
che ha fatti scrivere questa lettera a un combattente della sua armata navale.
Lettera pubblicata nella rivista Life il 5 novembre 1945. Scrive il
guardiamarina John Henry Holt da San Francisco: “Signori, ho perduto il timore
della morte a Guadalcanal. Ho perduto il mio migliore amico a Okinawa. Ho
perduto una gamba a Iwogima. E ha perduto la fede nella democrazia americana
dopo. avere letto il vostro articolo sui prigionieri di guerra Perché ho combattuto?
”.
CAPITOLO 11
Le baracche erano deserte e
tutto il campo aveva l'aria dimessa e abbandonata.. Qualche porta era. rimasta
aperta, e continuava a sbattere per il Vento che soffiava con uguale, intensità
da molti giorni. C'era ancora della neve qua e là per il campo e le strade
erano fangose.
- I prigionieri di tutti i
campi erano, allineati in prossimità dei cancelli.
Erano vestiti con cura; una
cura ricercata per coprire i cenci rimasti dalla grande bufera e gelosamente,
custoditi per il ritorno! Il ritorno!
Era il primo febbraio 1946 e
verso le 10 i primi ufficiali del campo 4 varcarono l'uscita per avviarsi fra
due ali di armatissimi M.P. Certo che a vedere quello spiegamento di forze non
si sarebbe proprio, detto che ora giunto il momento del rimpatrio.
Quasi tutti nel varcare il
cancello si voltarono a sputare per terra come dire – Toh! E Dio ti maledica,
terra americana!
Una volta filtrati fuori
dall'ultimo recinto cominciò la perquisizione. E sono gli M.P., gli incaricati,
come, al solito.
Palpavano tutto il corpo,
attentamente. Vuotavano le tasche e si prendevano qualche piccola cosa per
“souvenir”.
Ma le operazioni andavano
abbastanza sollecitamente e i prigionieri sopportavano di buon animo questa
perquisizione: ora l'ultima se Dio vuole.
La colonna degli ufficiali
aveva quasi terminato e stava già inquadrata per sei all'altezza della
“nursey”, quando si udì un concitato gridare.
Tutti si voltarono a guardare e
quelli che erano bersaglieri si lanciarono di corsa verso gli M.P.
E un bello spettacolo ebbe
inizio. Il Tenente Enzo Salerno ci teneva naturalmente moltissimo al proprio
fez rosso e non ne voleva sapere di farne un “souvenir ” al M.P. che lo aveva
perquisito. L'M.P. era ostinato ma il Tenente Salerno, da buon bersagliere, Io
era molto di Più.
L’M.P. allunga la mano per
prendersi quel fez rosso con il fiocco azzurro.
E il Tenente Salerno allunga un
diretto al mento dell’M.P. che crolla a terra.
Gli altri M.P. che avevano
seguito la rapida scena gridarono: “,Héllo boys ” e si lanciarono verso quel
prigioniero. Quel prigioniero uno due, uno due, un pugno al ventre, un pugno, al
mento li distese per terra.
Ma altri M. P. si buttarono a
mani alzate contro l'ufficiale italiano che ad alta voce grida: “Allarmi i
bersaglieri, tremendi e fieri”.
Gli ufficiali dei bersaglieri
escono dalla colonna di corsa e si buttano nella mischia.
Quante ne buscarono gli M.P..
quell'ultimo giorno! Infine ci si misero con i thompson e in una ventina
riuscirono a spaccare il capo al Tenente Salerno.
Bravo Salerno! Non si toccano i
bersaglieri! Quello fu l'ultimo Combattimento fra le truppe italiane e americane
sul territorio degli Stati Uniti.
Per la pista fangosa la colonna
muoveva verso la ferrovia.
Ad un certo punto il Colonnello
Feroldi ordinò l’alt fronte a destra. Nella. distesa squallida, lontano, si
vedeva la M in muratura costruita all’Ingresso del cimitero. Là, i nostri cari
compagni caduti in prigionia di guerra. - Attenti!
Gli M.P. guardavano senza
comprendere quel muto sostare della colonna.
Nel silenzio vennero scanditi i
nomi dei caduti, a cui faceva eco il. presente dei sopravvissuti.
Tutti i nomi, uno per uno, e a
voce forte: Presente!
Era in noi la Patria che li
salutava, per l'ultima volta.
La colonna riprese la sua
marcia allontanandosi sempre più dal campo di Hereford.
Nessuno mai si voltò indietro a
guardare.
Il mare è tranquillo. La nave
ha aumentato di qualche nodo la sua velocità. Lungo i ponti e un andirivieni
sempre più paziente di, uomini, e gli sguardi, sono rivolti insistentemente in
avanti verso la prua della nave che si alza e si abbassa lievemente sollevando
due leggeri baffi di spuma bianca. I discorsi sussurati hanno tutti lo stesso
tema: il ritorno.
All'alba. All'alba saremo a
Napoli dice qualcuno con la voce tremante.
- Ancora sei ore, All'alba? Ma
arriveremo, all'alba? Incalza un'altra voce.
Perchè all'alba, proprio,?
E' più bello arrivare,
all'alba. Basta arrivare.
Certo. Ma arrivare all'alba, è
un'altra cosa ecco. Poi ancora il silenzio rotto Solo dal frusciare delle acque
sui fianchi della nave. E il pensiero veloce. Si vedono delle luci. E’ la
Patria là.
Non c'è gioia in nessuno, a
bordo. E' un triste ritorno per dei soldati, questo.
Un ufficiale americano, ieri
sera ha chiesto a un prigioniero: siete, felice, signore?
La risposta è stata semplice;
semplice come il dolore che hanno nel cuore tutti quei soldati a bordo.
Non abbiamo la Vittoria con
noi, signore. Se noi avessimo la Vittoria, noi saremo felici di tornare.
E l'ufficiale americano ha teso
la mano e ha detto: la guerra è finita, signore. Voi avete fatto il vostro
dovere da bravi soldati... Auguri... Good by sir!
E il prigioniero lo ha guardato
negli occhi, poi sorridendo tristemente ha ripetuto:,
-Ja, sir! War is finish!
La guerra é finita e là si
vedono delle luci.
Tanti anni prima, in un maggio
radioso, quanti sono partiti con la speranza in cuore, salutati da tanti
sorrisi! Là é la, Patria.
Non. c'è gioia nel cuore. Tutti
sono muti e tristi .
Qualcuno ha già le lacrime agli
occhi perchè pensa che attraccheranno forse al vecchio Molo Pisacane. Molo
Pisacane. C'era la mamma con la ragazza, giù nella banchina a salutare quando
la nave si è staccata dalla terra, lentamente. E c’era tutta que1la, gente che
agitava i fazzoletti e gridava “Tornate presto! Tornate presto con la
vittoria!”. Quanti anni sono passati da quel maggio lontano.
Certo che ben altro era il
ritorno sognato nelle soste, e nelle tregue della lunga guerra. I fiori e le
speranze e le parole d'addio e la; sfilata per via Toledo, il giorno, della
partenza. Ora il ritorno era triste,, Non c'erano bandiere a bordo. C'era solo un
grande lutto.
Guardavano le luci della costa
e quella del faro che si accendeva e si spegneva e quel bagliore cupo e lontano
che doveva essere il Vesuvio.
Ecco il grande atteso giorno!
Che tristezza!
Sembra di essere a un
funerale... Nessuno: parla..
Non ci, sarà nessuno, ad
attenderci all'arrivo.- Chi vuoi che venga? Siamo dei vinti, noi! I vinti
capisci? Gli unici vinti.
A poco poco l'orizzonte si
faceva chiaro e il mare appariva grigiastro e la nave andava più lentamente.
Non si vedevano navi o imbarcazioni di sorta.
Alle murate tutti gli uomini,
pronti.
Ora nessuno parlava. Qualche
gesto ogni tanto per indicare un punto lontano. Cera molta nebbia e non si
vedeva la costa, ancora.
Quasi tutti avevano indossato
le loro divise. Si era detto: “ Non dobbiamo parere degli straccioni. 'Noi
siamo dei soldati... ”.
A un certo momento, magicamente
quasi la nebbia sì dissolse. E tutti furono in piedi.
Napoli era li, vicina.
Napoli. Così non l'avevano mai
vista. Il cimitero di navi. E quelle navi da guerra e quelle bandiere a
strisce: la guerra perduta!
Gli occhi erano pieni di
lacrime.
Ma quando la nave fu più vicina
a terra, gli uomini, tutti, s'irrigidirono sull'attenti e alzarono il braccio a
salutare la Patria.
I volti erano rigati di lacrime
e il cuore era gonfio di tanto amore e di tanta passione per quella terra
ferita.
C'era qualche soldato italiano
sul molo. Tenevano le mani ficcate in tasca. Tutti a bordo aspettavano che quei
soldati facessero un cenno di saluto. Anche altri soldati e borghesi arrivavano
sotto il bordo della nave e non uno faceva un cenno di saluto.
Siamo degli stranieri, noi -
disse uno degli ufficiali che si trovava a prua.
- Forse hanno saputo che siamo
“ fascisti ”', disse un altro.
Così in silenzio, senza
espansioni nè da una parte nè dall'altra la nave attraccò a quell'avanzo di
molo.
Finalmente uno di quei soldati
laggiù grido qualcosa.
Gridò - Butta una sigaretta,
paisà!
Nel frattempo era arrivato un
camion militare e ne erano scesi d gli uomini vestiti di una divisa verde
buffissima.
E’ la banda, disse qualcuno.
Hanno gli strumenti.
E la banda si mise a suonare la
“ Canzone del Piave ”.
Si sono sbagliati. Si sono
sbagliati.. Credono che siamo quelli di Vittorio Veneto. Si sono sbagliati,
proprio.,La passerella era stata calata e da una 1100 era disceso un generale
seguito da alcuni ufficiali in divisa nemica Era la Commissione Ufficiale
incaricata del saluto.
Sale a bordo, il generale.
Stringe la mano al nostro generale e dice: “ Bene. arrivati in Patria ” Poi fa
qualche passo verso degli ufficiali e si ferma di fronte a uno di questi e tesa
la mano ripete: “Ben tornati in Patria ”.
Ma l'ufficiale non gli dà la
mano; se la mette in saccoccia.
Quale Patria, generale? Quella
che voi rappresentate non è quella per cui noi abbiamo
combattuto e sofferto. Quale
Patria? La nostra ha piantato le bandiere in Egitto e ha ammainato ad
Enfidavìlle. La vostra ha rinnegato tutto questo.
Patria, generale? Poi in fila
indiana, giù per la passerella cominciarono a scendere.
Guardando la gente con aria
ostile e la gente si scosta per lasciarli passare. Ma c’è una donna che si fa
largo tra la folla e si avvicina a un prigioniero. Veste di nero e ha un mazzo
di rose fra le braccia.
---Tieni, dice. Tieni. La
Patria vi saluta.
Il prigioniero stringe i fiori
fra le braccia e vi nasconde il viso rigato di lacrime.
A uno a uno i prigionieri
stringono la mano della donna in lutto e gli ultimi due ufficiali, la prendono
sotto braccia e la trascinano con loro.'
E' la moglie di una Medaglia
d'Oro.
Dice il tenente che, non ha
voluto stringere la mano del generale:
Lei, lei ci ha portato il
saluto della “nostra” Patria.
Ci sono dei camion che
aspettano. I prigionieri vi salgono. Le macchine si muovono e gli uomini
prendono a cantare le loro vecchie. canzoni di guerra.
Questa storia l'ho raccontata
tante volte. E ogni volta che la racconto mi commuovo. Forse sono divenuto
troppo sentimentale nei lunghi anni persi solo, a pensare al mio ritorno.
Forse è per questo che ogni
volta che racconto questa che è la Storia del mio ritorno mi commuovo e dico
super giù le medesime parole e le medesime, frasi. Non mi pare dì avere mai
cambiato modo di raccontarla né di avere usato parole diverse. Ormai lo so
perfettamente. Lo ripeto sempre ugualmente e sempre. usando i toni di, voce e
le sospensioni della prima volta che mi capitò di raccontarla a dei miei vecchi
compagni di guerra incontrati per caso dopo anni e anni, in una vecchia e
rinomata osteria di una città di pianura.
Cèrto che,il mio ritorno non è
andato per nulla come avevo sognato e immaginato che andasse. E certo che nei
lunghi anni della mia lontananza, ho, mutato tante e tante volte l'immagine del
mio ritorno. Ricordo che nei primi tempi, quando la guerra era appena
principiata e correvo liberamente per il gran deserto, amavo vedermi in una
bella sfilata di truppe vittoriose con gli stendardi sbrindellati e la folla
plaudente al nostro passaggio. Poi con l'andar della guerra e con il mutare
degli stati d’animo anche i miei sogni e le mie immagini mutarono. Sempre più
tristi i sogni e
sempre meno confortanti le
immagini. Forse data da quei giorni la mia passione per Dostojewschi.
Gli ultimi miei sogni erano
sconfortanti ma in essi rimaneva sempre un barlume di speranza che il mio.
ritorno coincidesse con, la Pace e che tutto ciò che di brutto i giornali
avevano raccontato non fosse vero .Speravo proprio che tutto fosse un sogno, un
brutto Sogno, quello che venivano raccontando i giornalisti dell’A.P. e
dell’U.P. sulla nostra Italia. Ma come ho detto questa è la storia del mio
ritorno. Non devo proprio dire quali erano. tutti i pensieri che mi
ossessionavano in quei
giorni e in quelle notti
interminabili del mio interminabile calvario.
Anche i miei vecchi compagni di
guerra hanno avuto un ritorno su Per giù simile al mio. Infatti è capitato che,
molte volte mi interrompessero per dirmi " Anche a me. Proprio. Anche a me
". E io pure ho molte volte interrotto i loro racconti: per dire: "
Anche a me. Proprio. Anche a me” Il mio ritorno è stato dunque, su per giù,
uguale al ritorno di tanti altri. Ecco la storia, finalmente.
Quando il piccolo, Colonnello,
del tribunale Militare ebbe sentenziato che ero “fascista” e fui informato con
bel garbo da un tenente vestito da “marocchino” che mi avrebbero appioppato gli
arresti di rigore per non aver collaborato con il Governo del Re e con gli
Al1eati, tirai un sospiro di sollievo e passai a ritirare le diecimilalire che
il Patrio Governo, mi anticipava sulla liquidazione.
Ero proprio libero pensavo di
andare a casa mia. Dove proprio non. Sapevo. Così mi faceva piacere dirlo e
ripeterlo ai miei compagni che “casa” che casa avevamo di sicuro. A casa mia, a
trovare i miei. Lo dicevo anch’io ad alta voce. Ma non sapevo proprio dove
andare. Di casa mia: nulla. Dei miei, nulla. Forse fu pensando a quel nulla che
comprai un mitra.
Per undicimilalire a Posillipo,
barattando per coprire il prezzo e avere cartucce un paio di coperte americane
In caserma o meglio nell’alloggiamento ufficiali, quel mattino era tornato uno
di noi che aveva cercato di telefonare ai suoi a Milano.
Ai suoi che non gli avevano mai
scritto. Era tornato in caserma e si era buttato sulla sua branda. Dopo sapemmo
che gli avevano massacrato tutti, lassi nel Nord.
Forse fu anche per questo che
comprai il mitra. E forse fu anche per tutte quelle bandiere nemiche issate per
ogni dove. E per quella rovina che da tutto traspariva. E anche per quello che
la gente diceva della nostra guerra perduta e dei nostri morti. , Proprio fu per
tante ragioni che comprai quel mitra. Pensavo che non ci fosse altro da fare
che vendicarmi e vendicare quei miei soldati morti per il deserto. Non avevo
mai sognato nè, pensato 1 che avrei potuto desiderare di Vendicarmi.
Ma le cose nel mio cuore mutavano
rapidamente. Mutavano ad ogni ora. Mutavano a vedere ilsole. E mutavano man
mano che si andava facendo strada la coscienza di essere comunque in Patria.
Era tanto tempo che non udivamo più parlarne e credo che ognuno di noi se, ne
fosse fatto un concetto tutto diverso da quello che invece si andava formando
al vedere quelle facce patite di bimbi e quelle donne che mendicavano il pane.
Anche quella prima ragazza che
incontrai su per quella che io continuavo a chiamare via Toledo, contribuì
certamente a fare mutare propositi del mio cuore.
Era una bella ragazza. Del
tipo, che ognuno di noi aveva sognato. Bella, veramente. Capelli neri.
Occhi neri. Bella. Aveva,
sedici anni.
Ricordo che si avvicinò per
dirmi Sei tornato. E io come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Sono tornato. Lei dopo avermi
guardato: Che fine, eh?. E io era meglio non tornare. E lei; Perché.
Non ne valeva la pena tu fossi
crepato. E io: Era meglio di sicuro. E lei; No. E’ bello vivere. E’ bello anche
se devi stare nel marcio. Li ho visti i morti, anch’io sai. E credo che da
allora, dalla prima volta che ho visto tirarne fuori uno sotto di là, da quel
moccio di sassi, ho voluto più bene al sole. Poi non ne valeva la pena.
Io rimasi silenzioso a
guardarla. E pensavo che di quello che andava dicendo non me ne importava
nulla. Mi importava solo che era bella. Ma poi pensavo che aveva sedici anni. E
allora cercavo di ricordarmi che in quanto aveva detto c’era una grande
amarezza. Poi lei si muoveva. E io tornavo a pensare che era bella. Credo di
non averla salutata e di essermene andato di corsa. Era bella.
Ma aveva sedici anni, signore
Iddio. E quella sera andai a guardare il mare. E il mio cuore non voleva più
vendicarsi.
Intanto nella giornata molti di
noi si erano lanciati verso le case. A tutti i treni uno partiva. E con molti
non ci siamo salutati o scambiati l’indirizzo. Importava solo di essere a casa
A casa. Certo era la casa, Napoli. E io, e quelli che come me non sapevano
nulla, forse non avremmo mai voluto andarcene. Andarsene poteva significare
sapere. Era meglio ritardare. Quelle diecimilalire erano già andate con il
mitra. Bisognava barattare qualcosa. Io barattai una stecca di americane. Poi
barattai anche un portafoglio nuovo nuovo. Poi non so come improvvisamente
decisi di correre a
casa. Anch’io a casa. Avevo il
mitra. Forse lo avrei voluto vendere. Ma mi piaceva tenerlo. Ero solo si può
dire. E un mitra fa compagnia. Io poi volevo andare a casa, E’ strano, pensando
a quella che era la casa lasciata, non mi commuovevo come pensando a tante
piccole cose; come alla mia divisa slavata e a quei nastrini azzurri e a tutto
il resto, dalle fiamme alle spalline, era legata la mia giovinezza. Me la sarei
dovuta togliere, Non c’era più una bandiera pulita per quella divisa. L’avrei
tolta. E la mia giovinezza
sarebbe finita, ufficialmente.
Non ricordo quanto mi costò il
viaggio da Napoli a Roma. Ricordo solo il viaggio attraverso le città distrutte
e la fermata presso il campo di Aversa dove erano tenuti degli italiani: Uno di
essi un ragazzo, mi gridò che era della”MAS” e che gli avevano massacrato suo
padre a Mantova, i partigiani. Già fu ad Aversa che io vidi la prima bandiera
rossa. Era una giornata piovigginosa e fredda, e la campagna era molto triste.
Io tenevo il sacco fra le gambe e osservavo la strada umida che si apriva
davanti alla nostra corsa. C’era altra gente nella macchina . Forse più di
cinque persone. Dopo Aversa l’autista mi disse che aveva fatto le quattro
giornate. Poi un altro disse che era un peccato che Mussolini l’avessero
ammazzato. E anch’io dissi che era un peccato che lo avessero ammazzato. Certo
che pensando a quello che avevano raccontato i giornalisti dell’A.P. e
ricordando le fotografie pubblicate in esclusiva dal “Life”, ero contento di
aver comperato il mitra. Io gli volevo molto bene a Mussolini. E dico la
verità, ancora oggi, più di ieri, gli voglio bene. Poi anche un altro che stava
seduto stretto stretto nel sedile posteriore, quasi affogato da un grande
involto, parlò. Disse che era tornato dalla Russia. Per miracolo era tornato. E
non aveva trovato nessuno a casa. Nessuno. L’ultimo bombardamento americano gli
aveva ucciso i suoi. Era stato ufficiale d’artiglieria. Ora faceva la borsa
nera. Portava farina bianca a Roma. Vendeva anche sigarette. Io fui l’ultimo a
raccontare. E non avevo molto. Il mio ritorno durava ancora. E di casa, nulla.
Non volevo mai fermarmi nei
miei racconti a un particolare dei miei sogni. A un particolare segreto.
Avevo anche io la ragazza,
quando partii per la guerra. Aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi e si
chiamava …Ma come si chiamasse non importa. E di lei tutti i miei silenzi,
nella contemplazione di stelle e di albe indescrivibili erano pieni. E anche a
lei pensavo mentre la macchina correva verso Roma.
A Roma. Lasciai i miei compagni
di viaggio a Piazza Vittorio. L’ex ufficiale d’artiglieria dell’Armir si
trascinava il suo grande involto e prima di perdersi nella folla si volse a
salutarmi. Io entrai in un bar. C’era tanta gente. E tutta mi guardarono. Io
pensavo che era strano che avessero ancora voglia di guardare un soldato dopo
tutto quello che c’era stato. Forse mi guardavano per la mia divisa, che per
quanto slavata e sdrucita era sempre la vecchia divisa. Dopo capii che erano
comunisti. Chiesi un gettone.
Poi guardai l’e1enco telefonico. Feci il numero. Chiesi. Avevo sbagliato.
Chiesi. Mai sentito nominare. Al terzo gettone il barista mi disse i numeri non
corrispondevano più. Allora chiesi al 02. Un altro gettone. Feci il numero,
risposero. Corsi fuori dal bar. Avevo trovato un amico. E questo amico forse
sapeva ,qualcosa della mia casa. Non sapeva nulla. Nulla. Aveva visto mio padre
pochi giorni prima della caduta di Roma. Era nella, RSI. E pensai anche' che
forse non l’avrei mai più visto. Tanti ne aveva uccisi nel nord dicevano. Tanti
e forse anche lui. E il mio amico raccontò che aveva scritto subito dopo la
fine della mia casa e di
non aver avuto risposta. Io
piansi. Mi sarebbe piaciuto ritrovare i miei. Tanti li avevano ritrovati. Il
mio amico di disse: - tu non sai dove andare. Resta qui. Qui come a casa tua.
Quella sera scrissi alla mia ragazza. Al vecchio indirizzo. Non avevo il
coraggio di andare lassù a chiedere. l mio amico mi accompagnò fuori. Vidi le
donne con i vincitori e tutte quelle bandiere, persino quel francese, sui
palazzi della città. Era meglio non tornare. Il mio ritorno si poteva
considerare concluso. Ma così non era . E’ stato lungo il mio ritorno. Giravo
per Roma nella vecchia divisa di
tela. E non salutavo gli
ufficiali che incontravo e che mi erano superiori in grado per quella divisa
nemica che ostentavano. Il mio amico mi aveva dato dei soldi. Non molti perché
anche lui non poteva. Voleva che mi distraessi. E io non facevo che pensare al
mio bel battaglione e alla maledizione di essere tornato, anche se mi trovavo
fra le braccia di una ragazza. Una due, tre, tante ragazze in quei giorni. Ma
il chiodo fisso era sempre là verso il nord dove in qualche punto forse avevano
accoppato i miei. E verso il Nord, in cerca, volevo andare ormai. E anche il
pensiero
della vendetta era tornato in
me. Avevo fatto bene a comperare il mitra a Posillipo.
Ma un mattino… Ero in via XX
settembre. Il mio giubbone da carrista era stato lucidato a dovere e rimesso in
ordine. E anche i miei stivali gialli; di cuoio grezzo erano puliti. E la
bustina era stata lavata come tutto il resto della mia divisa. Ero per Via XX
settembre. Non pensavo a nulla, probabilmente. So che guardavo una nuvola che
correva veloce proprio nella direzione di Porta Pia. Una nuvola bianca in un
cielo grigio e pesante. Era bassa bassa quella nuvola. Solo in montagna ne
aveva viste di cosi basse. Chissà a cosa pensavo. Mi afferrarono per un braccio
e una voce mi gridò: - Mio Dio! Ma sei tu. Sei tu!
Lo riconobbi quel signore in
soprabito grigio: Era della mia città. E forse era stato con mio padre.
Infatti disse stringendomi al
petto: - E tuo padre che non sapeva niente, niente. Io tacqui un attimo poi
sussurrai: - come è finito ? E lui, senza dirmi una parola a fissarmi negli
occhi. Poi, la cosa più bella del mio ritorno, la sua domanda. – Non l’hai
visto ancora? Iddio sa perché avevo comprato quel mitra.
Quella stanza misera misera,
all’ultimo piano della vecchia casa di via Piave, non la posso dimenticare. E
non, posso dimenticare il soffitto basso e i muri scrostati. Era in ombra
perché la bassa finestra dai vetri sudici non poteva lasciare passare
internamente la luce. Là è finito il mio ritorno. Là su un letto basso, con
poche coperte addosso, ho rivisto, dopo sette anni, mio padre.
Mio padre che credevo mi
avessero accoppato lassù i partigiani. E non posso tralasciare di raccontare la
fine del mio ritorno.
Avevo salito le interminabili
scale rimurginando dentro un lungo discorso. Ma non avvenne nulla di quanto
avevo pensato potesse avvenire al mio ritorno con mio padre. Nulla di quanto
era venuto sognando e immaginando in tanti anni. E’ nessuna parola di quelle
che avrei voluto dire. E le sue parole furono queste, durante il primo
abbraccio: - Figlio mio mi hanno sputato addosso lassù!
Avevo chiesto alla ragazza che
mi aveva aperto: - E’ qui il Colonnello? E la ragazza mi aveva guardato sospettosamente.
– Chi siete?. – Dite… dite che un ufficiale lo vuole… Ecco dite questo… Le cose
erano andate poi rapidamente. E io avevo ritrovato mio padre. E il mio ritorno
era finito.
“ mi hanno sputato addosso
lassù figlio mio! “.
E quella stanza fu per molto
tempo la mia casa.
Smisi la divisa e riposi le
spalline da ufficiale.
E cominciai a lavorare.
Il mitra non l’ho venduto.
“Ubriaco di sole è il
mio cervello
E l’anima è infocata
di tedio estivo
Ho fame, il mio passo
è malcerto
Se mi guardo
d’attorno inorridisco
Se mi guardo di
dentro inorgoglisco”
(poesia
del Sottotenente della GNR Tullio Giuglia, prigioniero a Coltano, in:
Pietro
Ciabattini, Coltano 1945 un campo di concentramento dimenticato, Milano 1995
(dal diario di prigionia del Sottotenente
della G.N.R. Luigi PIANTATO - II Btg. 6 Rgt. " Battaglione UCCELLI" -
3 Divisione Fanteria di Marina SAN MARCO, della Repubblica Sociale Italiana)
"VENTO"
Lo chiamavano vento di
libeccio, tramontana o maestrale. Io lo chiamo semplicemente vento; né
m'importa di sapere di più.
So che nasce improvviso in
un'ora qualsiasi del giorno e della notte, e nello stesso modo muore dopo uno o
più giorni di vita.
So che nasce e......nel
periodo in cui vive è per noi una lenta agonia, sia libeccio o scirocco.
E un turbinio di polvere per
tutto il campo, e tu, povero prigioniero maledetto da Dio e dagli uomini, sei
costretto ad errare per il campo, masticando, con le imprecazioni, la terra
sollevata dal vento infame.
E quando...... quando alla fine
sentì gridare al megafono che puoi entrare in tenda, sei già del colore della
terra che ti ospita..... e ti getti sotto la tenda e fra te e il porco nel
porcile non c'è differenza.
Ti avvolgi, ti rotoli nella
terra e te ne bei quasi di tanta sozzura, e ti abbruttisci e diventi
bestia...... e vivi, e non sai perché vivi...... e vorresti morire e non sai il
perché..... ma poi pensi che un giorno...... si un giorno sarai di nuovo uomo e
dovrai continuare la tua missione dovrai vendicare ingiurie e patimenti, ti
dovrai vendicare del vento, degli uomini che del vento se ne servono per farti
soffrire ancor di più..... questo vento che ti tagliava il viso laggiù in
Russia o sulle Alpi o nel gangaio d'Albania o che ti riempiva di sabbia
infuocata del deserto libico...... si, quel vento che a volte era il tuo
compagno e che non maledivi perché portava sempre un saluto dalla casa lontana.
Ed il vento di quella canzone
che dice: "Vento, portami via con te!"
e il vento della libertà e
dell'amore, della vita e della gioia, non può essere il vento del povero
prigioniero, di questo povero uomo che vorrebbe cantare "Vento portami via
con te!" ma non può perché la gola è arida e gli brucia.
337/5
Coltano (PI) 20 agosto 1945
BATTAGLIONI M
(dedicata agli internati del campo di
prigionia di Scandicci)
“Battaglioni, o cari
battaglioni
Della morte creati
per la vita
A primavera s’è
chiusa la partita
Perché il nemico è
stato vincitor
Ed ora vi trovate in
prigionia
Perché il fratello vi
fu traditor
Contro l’odio del
sangue partigiano
Contro i vili invasi
dla furor
Sul mondo brilla il
vostro valore
Se vi arrendeste non
fu per viltà
Di voi parlerà la
nuova storia
Dirà che vinti foste
con onor
....”
(in: Giacomo de Marzi,
I canti di Salò, Genova 2005)
NON HO TRADITO
(testo del Cap. Bonola, Reg.
"Folgore" della R.S.I.
campo di concentramento di Coltano, estate
1945)
Tremar dovesse la terra sotto
Il tuo gagliardo passo d'ardito,
Tu va' sicuro con il tuo motto:
Non ho tradito!
Se l'ira cieca, se l'odio tetro,
Al tuo passare ti segna a dito,
Rispondi senza guardare indietro:
Non ho tradito!
Se l'ingiustizia, se la vendetta,
Per la tua fede t'avran colpito,
La tua parola tu l'hai già detta:
Non ho tradito!
Se nel tuo sangue tu giacerai,
Spirito invitto, corpo ferito,
Più fieramente risponderai:
Non ho tradito!
E se la morte che t'è d'accanto
Ti vorrà in cielo, dall'infinito
Si udrà più forte, si udrà più santo
Non ho tradito!
Per l'onore d'Italia, per l'onore d'Italia
Non ho tradito, non ho tradito, non ho
tradito!
Per l'onore d'Italia, per l'onore d'Italia
Non ho tradito, non ho tradito, non ho
tradito!

ROMA ELEZIONI APRILE 1948 - ROBERTO MIEVILLE TIENE UN COMIZIO

ROMA 1953 ROBERTO MIEVILLE CON ENZO ERRA
DANGEROUS FASCIST’CAMP (NON COOPERATORI), DALL’ HYMALAIA AL
“305”
IN EGITTO, DA HEREFORD ALLE AVAI
I “NON “ ANTIKAMAN DEL LAGER INDIANO YOL N.25
IL GIORNALE DEL CAMPO 305 (EGITTO)
IL GIORNALE DEL CAMPO 305 (EGITTO)
Forse un crimine di Guerra
“minore”, perchè le vittime furono relativamente poche, ma un crimine è e
rimane un crimine. Yol, India, primavera 1942. Nel
campo di prigionia n. 25 non ci sono novità. La vita quotidiana dei prigionieri
italiani procede come al solito. Ma oggi, 21 aprile 1942, non è un giorno
normale. E’ l’anniversario della nascita della Città Eterna, Roma, la Capitale
d’Italia; è il suo 2695° compleanno. Nella Patria lontana, è un giorno di festa
nazionale (durante il Fascismo lo era, “Natale di Roma e Festa del Lavoro”). Due ufficiali, i capitani Pio
Viale di Sanremo (Genova) ed Ercole Sante Rossi di Secugnago (Milano) –
quest’ultimo fratello del noto orientalista e turcologo Ettore Rossi – incitano
gli altri prigionieri a celebrare la ricorrenza con canzoni patriottiche a
tema, come l’”Inno a Roma”, musicato da Giacomo Puccini ed ispirato al “Carmen
Saeculare” di Orazio. Rapidamente tutti i prigionieri
italiani cominciano a cantare e un boato di canzoni patriottiche si spande per
tutto il campo n. 25 fino a contagiare gli altri campi limitrofi. Va a finire
che tutti o quasi tutti i circa 10000 prigionieri italiani di Yol cominciano a
cantare, e né le urla né i fischi delle guardie riescono a fermarli. Il comandante del campo, col.
A. H. Wilson, si precipita presso il fulcro della “festa canora” e ordina a
Viale e Rossi di tacere, minacciando di far aprire il fuoco sui prigionieri. I due ufficiali gli rispondono
che lui non può impedire ai prigionieri di cantare, o di festeggiare, e
aggiungono in tono di sfida un… “Viva il Duce!”. Allora il col. Wilson imbraccia
un fucile mitragliatore e freddamente fa fuoco, ordinando anche al sergente
Beatson di sparare a sua volta: i due ufficiali italiani vengono uccisi
all’istante, senza scrupoli, e altri 5 prigionieri vengono più o meno
gravemente feriti. Ecco che le canzoni
patriottiche si spengono sotto il rumore dei colpi di arma da fuoco, i
prigionieri tacciono, hanno capito… i diritti umani e le loro voci vengono
silenziati dalla prepotenza e dal sangue. Però i reclusi non possono
lasciare invendicata la memoria dei loro camerati, dopo questo ultimo atto di
brutale violenza, e un tale crimine non si può lasciare impunito. Naturalmente la vendetta sarà
soltanto simbolica; una simbolica punizione sarà sufficiente e non fornirà
pretesto per altri crimini. Il tenete Marino Bolla, nella
vita civile studente universitario di lettere, e nella vita del campo addetto
ad alcuni lavori nella mensa ufficiali britannica, ha un’idea. I due camerati
sono stati uccisi per aver festeggiato il Natale di Roma…? Bene, la vendetta
sarà in latino! Con un escamotage Bolla riesce
a porre sopra ogni posto della mensa ufficiali britannica una scritta:
"Memento Universi Romano Detestatio Exterminatio Ruinaque Supremae". Forse non tutti gli ufficiali
britannici di Yol conoscono il latino; ma a quelli che lo conoscono non può
sfuggire il tono derisorio nei loro confronti, moderni nemici di Roma, dei
versi latini; ma soprattutto la frase è stata scritta in modo tale che in ogni
caso tutti gli inglesi possano leggere e capire chiaramente l’acronimo formato
dalle iniziali delle parole latine: M.U.R.D.E.R.S. – “A.S.S.A.S.S.I.NI.”! Viale e Rossi sono stati
vendicati. Ancora una volta la fantasia italica ha avuto ragione dei suoi
avversari. La memoria di Viale e Rossi
venne onorata dalla concessione della Medaglia d’Oro. Essendo stata tale
onorificenza concessa dopo la guerra, ogni riferimento al Natale di Roma venne
omesso dalla motivazione (nel frattempo la Celebrazione era stata soppressa) e
a maggior ragione venne omesso ogni riferimento a quel “Viva il Duce!” che pure
era costato la vita ai due Eroi.
LATERINA - 9 aprile 1946
....LA FAME MI FA RIVOLGERE A TE
PER AVERE UN PEZZO DI PANE ANCHE DURO.....
ALBAVILLA
DA CAMPEGGIO PER I GIOVANI A CAMPO
DI
CONCENTRAMENTO PER I FASCISTI
Mussolini aveva creato una
grande struttura per ospitare i figli degli Italiani all'estero, nel '45
divenne luogo di sofferenza e detenzione. Viaggio nella nostra storia:
cosa soffrirono coloro che erano rimasti fedeli al Duce, tra mancanza di
igiene, di acqua e di cibo. Raggiungo l'Alpe del Viceré
dopo aver affrontato sei chilometri di strada asfaltata e, per alcuni tratti,
racchiusa nei boschi. Gli alberi, proprio in quegli angoli impediscono al sole
di filtrare. La giornata è relativamente calda e l'auto si arrampica sugli otto
tornanti senza fatica. L'Alpe si trova in un luogo piuttosto isolato, a 903
metri sopra l'abitato di Albavilla, in provincia di Como. È un altopiano che si
apre sui contrafforti del monte Bollettone. Nel parcheggio sostano alcune auto:
oggi è un punto di partenza per escursioni e passeggiate. Nel 1935 l'Alpe
l'avresti trovata nel silenzio, attraversata dal vento, quell'aria pulita e
decisa che sfogliava gli alberi, per poi cadere sui prati che continuavano fino
a perdersi allo sguardo. Ed è proprio in quell'estate che Mussolini decide di
costruire il “Campeggio per i figli degli Italiani all'estero”: 120 baracche in
legno (sistemazione provvisoria), poi trasformato, nel 1937, in un “Villaggio
alpino”, interamente in muratura. Diciotto edifici sistemati in piccoli gruppi,
a formare tre ali di fabbrica che comprendevano un cortiletto piastrellato con
mattonelle di colore rosso. Le abitazioni, tutte simili, prevedevano un piano
rialzato e una breve scaletta di accesso. Il villaggio, al suo interno, era
dotato di un ufficio postale e di un negozio. Inoltre, in un edificio comune,
si trovavano i servizi come la mensa, la cucina, le dispense e i servizi
igienici. Nel 1940 il villaggio viene evacuato. Con lo scoppio della guerra,
l'Alpe ospita le sedi di formazioni militari, funzione che continua anche
durante la Repubblica Sociale. Fra febbraio e marzo del 1945 l'Alpe viene
bombardata per distruggere i depositi di carburante installati dai
Repubblicani. Lascio l'auto nel parcheggio sterrato. Il sole scalda i primi
passi prima di entrare nel bosco. Bastano pochi metri per scorgere, appena di
lato, quello che resta del cortile piastrellato: qualche macchia di rosso sbuca
dalla terra, fra l'erba cresciuta. Alcuni muri, perimetri delle vecchie
abitazioni, cercano di testimoniare nonostante il tempo. Guardo gli alberi, la
terra, quell'erba che odora in silenzio e provo ad ascoltare: se riescono ad
arrivare voci, suoni di un tempo andato. Perché non sono arrivato solo
sull'Alpe, su quello che resta del campeggio costruito dal Fascismo. In paese,
ad Albavilla, nessuno sapeva niente. Oppure nessuno aveva voglia di parlare.
Scambio poche parole al telefono con l'ex assessore alla cultura Gabriele
Parravicini. E ripenso a tutto questo mentre sono seduto sulla terra che ha
ospitato uno dei campi di concentramento per prigionieri Fascisti.(riporto fedelmente quanto scritto
sul documento del CLN n.d.a.). E grazie a questo documento ritrovato negli archivi
di Stato, datato 11 maggio 1945, è possibile ricostruire le condizioni in cui
vivevano i prigionieri fascisti. Dato l'alto numero di adesioni ricevuto dalla
Repubblica Sociale, nel campo di Albavilla vengono inviati diversi gruppi di
prigionieri. È possibile stimare la presenza di oltre 1000 Repubblicani. Il
campo è provvisto di quattro baracche (sopravvissute ai bombardamenti del
febbraio-marzo 1945) della capienza di 500 uomini (anche se nel documento si
stima un eccesso di uomini inviati) che al loro interno dovrebbero avere paglia
e terra. Sottolineo “dovrebbero”, perché dal documento si evince che
“attualmente il campo è sprovvisto di paglia”. E non è la sola cosa a mancare. Le
condizioni igienico-sanitarie sono precarie. I feriti muoiono per le mancanze
del servizio sanitario. E chi non ha ferite d'arma da fuoco non è certo più
fortunato. È possibile restare senza cibo per giorni. Oltre le baracche è
presente un piccolo fabbricato ad uso cucina, capace di accogliere 700 uomini
su due turni. Peccato che le gavette e i cucchiai siano pochi. I prigionieri
affrontano la sete e la privazione dell'acqua: “l'acqua potabile viene
distribuita solamente un'ora al giorno, a mezzo di due rubinetti”. Insomma,
manca tutto. Il servizio sanitario è “attualmente diretto da un maggiore medico
internato”. Ma il medico internato non ha medicinali, apparecchi per la
disinfestazione delle baracche (parassiti e malattie contagiose debilitano i
prigionieri n.d.a.). Non esiste l'infermeria, letti o barelle. Così come è assente
una farmacia. Insomma, non esiste il necessario per far funzionare il servizio
sanitario. Mancano inoltre le latrine a getto d'acqua: in tal modo gas mefitici
ed infettivi aleggiano nell'aria del campo. Per non parlare del servizio trasporti.
Infatti il CNL di Como non ha previsto neppure di mettere a disposizione del
campo di concentramento i mezzi per il trasporto viveri. Nonostante l'evidenza, a
seguito di un invio di un “folto numero di prigionieri” viene fatto presente
che “il campo deve essere organizzato anche in previsione dei prigionieri che
il comitato di epurazione crederà opportuno inviare”. Qualcuno al Corpo
Volontari della Libertà deve aver fatto presente lo stato fatiscente del campo,
perché nella nota successiva il Cln dispone che si “provveda ad aumentare la
capienza delle baracche fornendo paglia sufficiente anche per un eventuale
ricambio” e per quello che riguarda il locale cucina “dotare lo stesso di
pentolame, gavette e cucchiai”. Per l'acqua corrente “prevedere un pozzo con
pompa aspirante per i bisogni, disponendo i rubinetti di erogazione in punti
accessibili”. Fra i tanti prigionieri del campo ricordiamo il passaggio del
Sottotenente Ruggero Belogi, della II° Legione GNR Ferrovia. Caduto prigioniero
dei partigiani, viene detenuto nelle scuole di via Ghislanzoni a Lecco, per poi
giungere nel campo di concentramento di Albavilla, dove avrà almeno la gioia di
riunirsi al padre, Tenente Colonnello della GNR Ferrovia.
Alessandro Russo
Da “Il Giornale d’ Italia”
LA POSTA DELLE DONNE PRIGIONIERE
Hawaii (Stati Uniti d'America),
1944
Campo di prigionia per italiani
internati non collaborazionisti
''Nella foto i funerali del
prigioniero italiano ''Domenico Accosato'' nel campo n° 2 di Oahu. A norma del
regolamento militare italiano in vigore alla dichiarazione di guerra, i soldati
sprovvisti di copricapo dovevano salutare romanamente anche se prigionieri. Gli
statunitensi, che in un primo momento si erano dichiarati contrari a tale
saluto, alla fine dovettero accettare''.
Stele ricordo dell'ex Cimitero di guerra Italiano, presso il POW
camp no 31, di Hereford Texas
camp no 31, di Hereford Texas
AUSILIARIA MIRRI VELIA
la sua lettera dal campo di prigionia statunitense di
Scandicci (Firenze)
LA POSTA DELLE DONNE PRIGIONIERE
CARTA DI PRIGIONIERA DI GUERRA DELL'AUSILIARIA MIRRI VELIA
Poco conosciuto lo scenario che
vide delle donne italiane finire internate a causa della guerra e
specificatamente quello delle aderenti alla
Repubblica Sociale Italiana. Peraltro anche tra i civili che gli Alleati
internarono perché fortemente "compromessi con il regime fascista" vi
furono delle donne. La fine della R.S.I. travolse
anche il corpo delle ausiliarie, alcune delle quali, risulta 367, furono
rinchiuse dagli Alleati al pari dei loro camerati militari. I campi
inizialmente loro destinati furono il PWE 339 di San Rossore e il PWE 334 di
Scandicci, ma la presenza di internate della RSI è rilevabile anche in altri
campi, per es. nel “R. Civilian Internee Camp” di Collescipoli (Terni) e nel
370 POW camp di Riccione. Si tratta di posta rara, poiché piccoli furono i
numeri, senza distinzione di quantità tra posta spedita dalle donne o posta
ricevuta.
Cartolina con la comunicazione dell'internamento inviata alla famiglia da una prigioniera nel campo americano n. 334 di Scandicci in data 23 maggio 1945, attraverso il Comitato Internazionale della Croce Rossa di Ginevra .
La mittente è una giovanissima donna già inquadrata nelle ausiliarie della RSI
NON SOLO COLTANO
I 10.000 internati nel "Campo della
fame" di Taranto.
Il Campo fu sciolto il 13 aprile 1946
(da L'Espresso del 30-3-46)